martedì 5 luglio 2016

FOCUS. AUSTRALOPITHECUS: VIAGGIO ALLE ORIGINI DELL’ESSERE UMANO



Quanto indietro riuscite ad andare col vostro albero genealogico? Di solito dopo i bisnonni o i trisavoli ci si perde nella nebbia. Volendo cercare nelle parrocchie e risalire il filo delle parentele, se si è fortunati si può arrivare fino al ‘600 (sono di quell’epoca infatti i primi registri parrocchiali, voluti dal concilio di Trento). Ma prima del ‘600 solo alcuni rari atti notarili possono illuminare l’albero del passato.
   È vero che alcune famiglie della grande aristocrazia riescono a risalire un po’ più in là: ma non poi di molto. Perché? Anzitutto perché esse riescono, di solito, a conservare traccia solo di una piccolissima parte dei loro antenati: se, per esempio, qualcuno volesse risalire fino ai tempi dei crociati, contando tre generazioni per secolo (e naturalmente due genitori per ogni antenato) arriverebbe in teoria alla bellezza di… due miliardi di antenati! Fate voi stessi il conto.
   È evidente che, in pratica, gran parte di questi antenati si sovrappongono (perché le famiglie si incrociano continuamente): ma ciò mostra quanto sia difficile ricomporre il mosaico degli avi.
   D’altra parte, arrivando al’epoca dei Romani o degli Etruschi tutti i fili si perdono, anche per famiglie più nobili: oltre quell’epoca, infatti, manca qualsiasi documentazione scritta che permetta di risalire più in là nel tempo. E i romani distano soltanto 20 secoli da noi. Se volessimo ricercare le tracce dei nostri più lontani antenati dovremmo risalire altri 40 mila secoli… E’ la differenza che esiste fra attraversare Roma e fare il giro della Terra.
   Eppure lungo tutti questi 40 mila secoli esistono dei “registri”, dei “documenti”, delle “tracce”, che permettono di scrivere (sia pure in modo molto diverso) la storia dei nostri progenitori: sono i sedimenti, le impronte, i fossili, che nel corso delle ere sono rimasti pietrificati nelle pieghe del terreno, e che solo negli ultimi decenni gli scienziati hanno cominciato a ricercare in modo sistematico.
   L’avventura della conoscenza in questo campo è particolarmente difficile, ma molto stimolante: perché consente di indagare su uno degli enigmi più affascinanti, quello delle origini dell’uomo.
   Per tale indagine è necessario indossare i pani di Sherlock Holmes, e partire alla ricerca di tutti gli indizi possibili, analizzando anche i più piccoli frammenti che permettono di far luce sulla vicenda. È proprio questo che cercheremo di fare.

“AUSTRALOPITHECUS”: VARIAZIONI SUL TEMA
Letteralmente, Australopiteco significa “scimmia australe”, ed è il nome che venne coniato durante i primi ritrovamenti avvenuti, appunto, nell’Africa australe (il primo avvenne a Taung, in Sudafrica, nel 1924).
   Gli Australipiteci rappresentano oggi, agli occhi degli investigatori, una strana famiglia, di cui non si sono ancora capite bene le parentele. Essi infatti sono vissuti per un tempo lunghissimo, almeno due milioni e mezzo di anni (da 3,7 a 1,2 circa) disseminati in varie zone dell’Africa dell’Est e del Sud.
   È una famigli di cui ci occuperemo dettagliatamente, poiché essa sembra rappresentare la “zona” di transizione verso forme via via sempre più umane. Sono esseri ancora abbastanza misteriosi, a metà strada tra la scimmia e l’uomo, che hanno acceso la fantasia di scrittori, disegnatori e anche registi (ricordate la scena iniziale di 2001: Odissea nello spazio?). vediamo cosa esce fuori da un’indagine scientifica, accurata.
   Di Australopiteci ne sono stati identificati sostanzialmente quattro tipi diversi: alcuni più gracili, altri più robusti, alcuni più alti, altri più bassi, con dentature a volte differenti. A ognuno di questi Australopiteci è stato attribuito il nome di una specie: la forma più arcaica è stata chiamata Australopithecus afarensis (Lucy); quella sudafricana Australophitecus africans; le due forme robuste: Australopithecus boisei e Australopithecus robustus. I ritrovamenti sono praticamente allineati lungo la cosiddetta Rift Valley (la grande “spaccatura” dell’Africa).
   È importante sottolineare che 2,5 milioni di anni sono un tempo lunghissimo: in pratica è il tempo che separa gli Australopiteci da noi. E basta vedere quante cose sono cambiate negli ultimi 2,5 milioni di anni (non solo nella nostra linea evolutiva, ma anche in quella di molti altri mammiferi) per renderci conto che le ramificazioni genealogiche di questi Australopiteci debbono essere state piuttosto complesse. Per ora cominciamo col prendere atto che in quel lungo periodo si sono trovati resti di ominidi che presentano, sia pure nella loro diversità, alcune caratteristiche comuni. Vediamo di ricostruire una loro scheda segnaletica.
   In comune gli Australopiteci hanno sostanzialmente taluni caratteri di base:
1)      Corpo: adattato al bipedismo permanente (anche se alcuni, come l’afarensis, erano probabilmente anche buoni arrampicatori).
2)      Cervello: molto piccolo. Il volume, calcolato in base alle dimensioni della scatola cranica, varia in un arco compreso tra 400-550 centimetri cubici (l’equivalente di mezzo litro). È interessante notare che, sebbene l’evoluzione degli Australopiteci copra un periodo di oltre 2 milioni di anni, la loro capacità cranica è aumentata di poco (con l’Homo habilis, che segue a ruota, la capacità cranica balza rapidamente a 60-800 centimetri cubici).
3)      Faccia: ancora molto scimmiesca, con zigomi pronunciati e un forte prognatismo (visti di profilo, cioè, hanno la parte inferiore del viso, quella delle mascelle e dei denti, molto sporgente in avanti: come le scimmie, appunto).
4)      Dentatura: in via di evoluzione verso di noi, ma ancora fortemente arcaica. Lo smalto dei molari (beati loro) è incredibilmente spesso: ma anche sottoposto a forte usura.
5)      Dieta: dall’analisi dei denti gli Australopiteci risultano sostanzialmente vegetariani, sia pure con tipi di alimentazione differenti come vedremo.
6)      Differenza maschi-femmine: presentano tutti uno spiccato dimorfismo sessuale: cioè i maschi sono nettamente più grandi delle femmine. Questa è una caratteristica di molti primati, in particolar modo scimpanzè e gorilla (anche nella nostra specie esiste un dimorfismo sessuale, gli uomini cioè sono mediamente più alti e robusti delle donne, ma di poco: tra gli Australopithecus boisei il dimorfismo era così accentuato che nei primi ritrovamenti si pensò trattarsi di due specie diverse e non di maschi e femmine). Ma sulla questione del dimorfismo bisogna essere prudenti, poiché solo un consistente numero di nuovi ritrovamenti permetterà di valutare queste differenze su base statistica. Accanto a questi caratteri che li accomunano, gli Australopiteci presentano, tuttavia, anche notevoli differenze.
  
Non bisogna infatti dimenticare che questi ominidi vivevano in ambienti e climi diversi: e tutta la biologia ci insegna che un essere vivente viene “modellato” dall’ambiente in cui vive, attraverso la selezione naturale. In particolare la disponibilità di certi cibi piuttosto che di altri crea solitamente delle “specializzazioni” che si riflettono in certe strutture dell’organismo, come vedremo tra poco.
   Cerchiamo però intanto di vedere gli Australopiteci nella loro successione nel tempo (nel loro “albero cronologico”, per così dire): per capire se un qualche filo conduttore può venire fuori dagli indizi finora raccolti sul terreno.

“Australopithecus afarensis: l’Overture
L’australopiteco più antico, riconosciuto da tutti, è per ora l’afarensis (vissuto dai 3,7 ai 2,8 milioni di anni fa). Anche i frammenti più antichi, risalenti a oltre 4 milioni di anni, si ritengono appartenenti a questa linea, che è quella di Lucy.
   Cosa dice la “scientifica” in proposito? L’esame dei denti mostra che l’afarensis usava molto gli incisivi: questo è un adattamento tipico di chi mangia frutta. Perché?
   Ebbene, ormai si sa che la dentatura è un indizio molto eloquente del modo di addentare o di masticare il cibo: per esempio i leoni posseggono lunghi canini per azzannare le prede, e potenti molari fatti “a forbice” (denti ferini) per tagliare e spezzare ossa e carne; ma hanno incisivi piccoli.
   I roditori invece (come il topo, il coniglio, il castoro) hanno forti incisivi a crescita continua, per far fronte alla grande usura del loro continuo rodere: al punto che se si bloccassero le mascelle i denti crescerebbero in continuazione, diventando zanne ricurve, simili a quelle del facocero. I bovini posseggono invece grandi denti molari (anch’essi a crescita continua) per macinare erba senza sosta; negli elefanti questi denti molari sono vere e proprie super-macine.
   La dentatura dell’afarensis, priva di grandi molari, priva di grandi canini, ma con incisivi sviluppati, indicherebbe un tipo di adattamento idoneo, appunto, a mangiare soprattutto frutta, da mordere, sbucciare e spezzare con gli incisivi anteriori (anche se altri indizi portano a ritenere che l’afarensis fosse occasionalmente onnivoro).
   Ma un individuo che mangia molta frutta è un individuo, ovviamente, che deve saper salire bene sugli alberi: è il caso dell’afarensi? Ebbene, effettivamente gli studi effettuati, in particolare sulla mano e sul piede, indicherebbero che le dita dell’afarensis non erano dritte, come le nostre, ma ricurve: le falangi mostrano chiaramente una curvatura tipica degli animali arboricoli. Dal momento però che oggi sappiamo (impronte di Laetoli) che era un bipede perfetto, ben adattato alla vita a terra, se ne può concludere che l’afarensis alternava la deambulazione terrestre con la salita sugli alberi, dove trovava una parte del cibo e forse rifugio per la notte (anche se può darsi che esistessero varietà più specializzate nell’una o nell’altra cosa).
   Ecco come una attenta analisi dei denti, dei piedi e delle mani, in combinazione tra loro, può rivelarci qualche frammento del comportamento di questo antichissimo ominide. Un essere cioè terrestre ma ancora adattato alla vita sugli alberi, ghiotto di frutta ma probabilmente onnivoro e capace di vivere in ambienti diversi, di tipo semi-forestale e savana alberata. È forse proprio questa sua capacità di adattamento ai climi che gli ha permesso di vivere un milione di anni, praticamente senza cambiare.
   Altro sull’afarensis è difficile dire, senza entrare in ipotesi non suffragate da prove o indizi: è infatti molto difficile riuscire a ricostruire avvenimenti che risalgono non a millenni, ma a milioni di anni fa.
   Un ultimo dato è che gli afarensis vivevano con ogni probabilità in gruppo (come fanno del resto gorilla e scimpanzè): sembra indicarlo il ritrovamento di almeno tredici individui morti tutti insieme e rinvenuti nell’Hadar, nel sito 333. Su questi tredici individui, bisogna dire, sono nate molte discussioni e anche polemiche: alcuni ritengono infatti che in questi resti si possano intravedere due forme contemporanee, ma una più moderna e l’altra più arcaica. Per avere più informazioni e conferme basterebbe ovviamente riuscire a trovare altri fossili nella zona: purtroppo l’Hadar si trova oggi in zona guerrigliera…

SUDAFRICA: CENTO CAVERNE PER UN DE PROFUNDIS
L’australopithecus afarensis scompare dalla scena intorno ai 2,8 milioni di anni fa. E verso quella stessa epoca (forse un po’ prima) fa la sua apparizione un nuovo personaggio, un Australopiteco che ha con lui alcuni tratti comuni, ma si differenzia per altri.
   Un suo parente? Un suo discendente? Per carità, non entriamo in questo ginepraio… Ci basta sapere che questo nuovo tipo di Australopiteco, chiamato africanus, si trova soltanto in Sudafrica, a oltre 3 mila chilometri di distanza. La cosa curiosa è che i suoi resti sono stati ritrovati soprattutto all’interno di caverne: non perché vi abitasse, ma perché un insieme di meccanismi che i detectives della paleoantropologia sono riusciti a capire.
   La regione, va detto, è quella del Transavaal, ricca, come è noto, di miniere di diamanti. E la zona in cui si sono trovati gli ominidi e una specie di groviera calcarea: una zona “carsica” come si dice (simile al nostro Carso), dove esiste una rete sotterranea di gallerie e caverne, con corsi d’accqua che scompaiono e riappaiono. E sono proprio i corsi d’acqua generati dalle piogge ad aver scavato internamente questo reticolo e queste “sacche”.
   In certi punti di queste zone carsiche si è osservato che esistono dei fori verticali, dei pozzi in parte riempiti da sedimenti fossili: e si è capito che in questi pozzi possono essere cadute in passato varie cose trascinate dall’acqua, come foglie, sedimenti e anche scheletri che si trovavano nelle vicinanze.
   Ma cosa ci facevano ominidi e animali in quelle vicinanze? L’ipotesi è la seguente. In quella zona non c’erano all’epoca molti alberi (lo si è accertato grazie ad altri indizi): punti tipici per la crescita di alberi potevano essere però le nicchie umide in prossimità dei pozzi. E sugli alberi ci salivano, a quel tempo, i leopardi per consumare tranquillamente i loro pasti e “parcheggiare” le loro prede (così come fanno oggi) in modo da tenerle fuori dalla portata delle iene. È in questo modo che vari resti d’animali, caduti a un certo punto dagli alberi, sarebbero rotolati (trascinati anche dall’acqua delle piogge)nelle caverne sottostanti. La stessa cosa sarebbe accaduta anche per certi ominidi.
   Che le cose siano andate così lo dimostrano i rilevamenti fatti su una delle “vittime” ritrovate: due inconfondibili segni lasciati dall’ “assassino” sul cranio di un giovane Australopiteco (robustus). Questo infatti portava chiaramente incise nella calotta le impronte delle zanne del leopardo, che deve averlo addentato in questo modo per issarlo sull’albero. Due piccoli segni che hanno permesso di ricostruire, dopo 2,5 milioni di anni, un dramma silenzioso avvenuto nella savana del Sudafrica.
   Esistono però anche altre possibili spiegazioni: in certe caverne, aperte sui lati, possono essere penetrate iene trascinando con sé resti di pasti. O addirittura certi Australopiteci possono aver occasionalmente abitato le grotte ed essere stati sorpresi da un predatore (è quello che talvolta capita ancora oggi ai babbuini della zona).
Ma come erano questi Australopiteci della specie africanus?

“AUSTRALOPITHECUS AFRICANUS”: ADAGIO, SENZA STRUMENTI
Dal punto di vista fisico non erano molto diversi dai loro “colleghi” afarensis: la taglia era di circa 1 metro e 35, il peso intorno ai 30 chili. La faccia ancora molto scimmiesca, con un marcato prognatismo (cioè una specie di “muso” sporgente) e dei forti zigomi. Anche l’africanus aveva arcate sopraccigliari molto accentuate. Insomma anche lui, se circolasse oggi per strada, verrebbe subito catturato e rinchiuso in uno zoo, sia pure con lo stupore di vederlo camminare così bene su due piedi.
Di frammenti ne sono stati trovati moltissimi, addirittura di centinaia di individui diversi. Soprattutto denti. E i denti hanno mostrato che questo Australopithecus africanus aveva una dieta probabilmente un po’ diversa dall’afarensis; gli incisivi erano più piccoli e i molari più grandi. Lo studio dei denti ha fatto così ipotizzare che si nutrisse di vegetali fibrosi (un po’ più duri da masticare della frutta) e anche di piccole prede occasionali. E forse persino di pezzi di carne strappati a qualche carcassa abbandonata da predatori.
   I denti hanno inoltre permesso di calcolare l’età della morte. Un ricercatore ha esaminato al microscopio oltre quattrocento denti di vario tipo, riuscendo a stabilire il loro livello di dentizione e il grado di usura: ne è risultata un’età media di ventidue anni… Si moriva giovani nelle savane africane. Questi dati, del resto, corrispondono ad altre indagini analoghe, fatte in altre zone con altri individui.
   L’africanus era più intelligente dell’afarensis? Dalle dimensioni del cranio non è possibile dirlo, anche se il volume celebrale era leggermente superiore (circa 430-500 centimetri cubici). Alcuni esemplari, tuttavia, mostrano forse un volume potenzialmente maggiore, come il famoso cranio di Taung (il primo ominide trovato in Africa, nel 1924, quello venuto inaspettatamente alla luce con l’esplosione di una carica di dinamite in una cava). Ebbene il cranio di Taung si ritiene appartenga a un bambino di cinque-sei anni e mostra già un volume celebrale di 500 centimetri cubici: e ciò corrisponderebbe a 600 centimetri da adulto. È anche vero, però, che questo cranio appartiene all’ultimo periodo dell’africanus: circa 2 milioni di anni fa.
   Raymond Dart, che negli anni Venti e Trenta fu il primo a raccogliere e a studiare questi fossili, ipotizzò, sulla base di certi reperti trovati nelle vicinanze, che questi ominidiusassero già degli strumenti in osso. Non solo, ma ritenne che questi Australopiteci fossero dei violenti killer di babbuini: in certe caverne, accanto a resti di ominidi, furono infatti trovati molti teschi di babbuini che mostrano uno sfondamento della zona parietale sinistra del cranio, come se fossero stati colpiti violentemente da un colpo contundente maneggiato da un destrorso. E Dart li descrisse come sistematici uccisori che massacravano furiosamente i babbuini bevendone poi il sangue ancora caldo.
  In realtà studi più accurati hanno smentito tutte queste ipotesi: alcuni ricercatori, da bravi investigatori, hanno studiato sistematicamente le tane attuali delle iene, e confrontando i resti dei loro pasti con le ossa trovate in Sudafrica hanno scoperto che presentavano le stesse tracce di denti e le stesse fratture: non si trattava quindi di strumenti, ma semplicemente di frammenti di ossa masticate dalle iene.  
   I babbuini, dal canto loro, non erano stati uccisi dell’Australopithecus africanus, ma erano stati forse trascinati in caverna dalle stesse iene: quanto alle pareti craniche sfondate si capì che ciò era il frutto non di una furia assassina, ma semplicemente della pressione dei sedimenti sovrapposti, che avevano, col tempo, schiacciato e “massacrato” i teschi.
   L’africanus, come probabilmente anche gli altri Australopiteci, non era insomma quell’individuo sanguinario che Raymond Dart aveva creduto di avere: anzi era forse un essere molto pacifico e gentile. Perché i suoi denti, come quelli dell’afarensis, mostrano una chiara vocazione vegetariana; non era un predatore, ma eventualmente una preda (forse dei leopardi, come abbiamo visto prima per il robustus).
   È probabile quindi che percorresse savane non con lo sguardo del killer, ma con quello di un essere mite, preoccupato probabilmente di non fare cattivi incontri, desideroso soltanto di trovare in giro i suoi vegetali preferiti, magari un po’ di uova e qualche roditore. E l’indispensabile acqua.

“AUSTRALOPITHECUS BOISEI”: SUITE DALLO “SCHIACCIANOCI”
Ma è ora il momento di introdurre altri due straordinari personaggi. Due personaggi che hanno percorso in lungo e in largo queste savane africane tra 2 e 1,2 milioni di anni fa: l’Australopithecus boisei e l’Australophitecus robustus. A vederli, nelle ricostruzioni fatte da esperti, sembrano qualcosa a metà strada tra un gorilla intelligente e un pugile completamente rintronaro…
   Come erano esattamente? Pur essendo vissuti in luoghi molto lontani (il boisei in Africa orientale e il robustus in Sudafrica) si assomigliavano come parenti stretti. Immaginiamo di tornare in una di quelle savane, e di osservarli da lontano, senza essere visti. Ecco quello che potrebbe raccontare un testimone oculare.
   Un gruppo di una quindicina di boisei sta attraversando una zona ondulata di colline piatte, su una discesa di erba gialla e qualche cespuglio. Giunto in un ampio avvallamento tra due colline, il gruppo si disperde. Alcuni si sono fermati a raccogliere delle bacche, altri si sono chinati per estrarre dei tuberi dalla terra. In lontananza si scorgono delle gazzelle e all’orizzonte alcune giraffe dai movimenti al rallentatore. Forse anche qualche leone è nei paraggi.
   Il clima è molto secco. Ci sono pochi alberi in giro: qualche acacia e macchie boschive. Non lontano da qui c’è un grande lago azzurro: i boisei si stanno probabilmente dirigendo verso il consueto punto d’acqua. Non so molto alti: poco più di un metro e mezzo. Le femmine, che hanno accanto i bambini, sono più piccole. Sembrano avere una pelle scura e un corpo coperto di peli: ma dal nostro punto di osservazione non si riesce a scorgere bene.
   Tutti appaiono molto massicci. La testa in particolare è larga, con immensi zigomi, un naso schiacciato e una faccia piatta. Molti stanno masticando: le radici e i frutti che hanno raccolto sono molto coriacei, e richiedono una lunga macinazione coi denti. Questi ominidi si sono ben adattati a un ambiente non facile e riescono a sopravvivere benissimo con un cibo che noi non riusciremmo nemmeno a digerire. A ogni movimento delle mascelle le tempie si gonfiano: sono gli enormi muscoli temporali che entrano in azione per macinare il cibo duro. Questi muscoli sono talmente potenti che raggiungono addirittura la sommità del cranio, dove si uniscono in una specie di cresta ossea che costituisce il punto di attacco muscolare. Assomigliano un po’, in questo, ai gorilla.
   Tutta l’architettura del teschio e dei denti è influenzata da questa esigenza di masticare a lungo: anche i denti, infatti, sono possenti come schiaccianoci. Non gli incisivi e i canini (proporzionalmente piccoli) ma i molari, che sono vere e proprie mole. Basta pensare che la corona dei nostro molari normalmente è lunga un centimetro: quelle del boisei possono raggiungere i due centimetri e mezzo. Questo significa, in volume, circa sei-otto volte i nostri… la sua testa come ha detto qualcuno è praticamente un mulino.
   Questa architettura fa sì che anche il cervello sia spostato indietro: la fronte è quasi inesistente e gli spessori sovraorbitali sono così accentuati da formare una vera e propria visiera sopra gli occhi. Eppure il cervello del boisei, malgrado questo aspetto scimmiesco, raggiunge già i 550 centimetri cubici: un volume molto più elevato che nelle scimmie antropomorfe. Non solo, ma i solchi e le circonvoluzioni dell’encefalo (rilevati indirettamente dalle impronte interne del teschio) sembrerebbero indicare un disegno assai più complesso.    Sotto le grandi arcate sopraccigliari lampeggiano due piccoli occhi.
   La sua intelligenza? Il fatto che sia vegetariano, e quindi non un cacciatore, lascia presumere che non disponga di quella capacità di immaginazione strategica che hanno solitamente i predatori.
 Improvvisamente tutti si immobilizzano e alzano la testa. Un pericolo sembra incombere. Le madri stringono a sé i figli. Il gruppo si riunisce: si sentono richiami incomprensibili. Qualcuno tiene un bastone tra le mani. Ma è un falso allarme e ben presto i boisei si rimettono in marcia verso il lato destro della collina. E poco dopo spariscono dalla nostra vista.

IL “BLACK SKULL”: LARGO E FORTISSIMO
Da chi discenda il boisei non si sa ancora bene (ci sono varie ipotesi in proposit), ma recentemente si è trovato un suo probabile antenato: è uno stupefacente cranio che risale a oltre mezzo milione di anni prima (cioè 2,5 milioni di anni fa), rinvenuto da Alan Walzer nei pressi del lago Turkana in Kenya, di colore nero (il Black Skull), e classificato con la sigla KNMWT-17.000.
   Quest’individuo era già a quel tempo una specie di macina vivente, con una grande cresta sul cranio e una struttura mascellare per così dire “aerodinamica”, tutta progettata per queste sue esigenze di macinare cibi coriacei. Una specie di Ferrari della masticazione, insomma…
   Il Black Skull (che alcuni, come Johanson, hanno proposto di chiamare Australopithecus aethiopicus per via di una mandibola frammentaria trovata precedentemente in Etiopia e che sembra appartenere allo stesso tipo di individuo) è, in un certo senso, un segno dei suoi tempi: infatti la sua apparizione (2,5 milioni di anni fa) coincide con un importante evento climatico che ha certamente avuto grosse ripercussioni nell’evoluzione della fauna e della flora in quella parte dell’Africa. In quel periodo, infatti, per ragioni che ancora non si capiscono bene, ma nelle quali è coinvolta anche l’espansione dei ghiacci polari, il clima divenne molto più arido e molte zone alberate scomparvero: cominciarono così ad affermarsi individui maggiormente “attrezzati” per il tipo di alimentazione disponibile nelle zone secche, come appunto vegetali coriacei.
   È proprio in questo tipo di ambiente che si sono trovati non solo il Black Skull ma anche il boisei, e in Sudafrica il robustus: tutte autentiche macine ambulanti, capaci di estrarre il massimo di nutrimento e di calorie dai frutti e dai vegetali della zona, grazie proprio alla loro capacità di atomizzarli con i denti.
   Facciamo allora un balzo di 3 mila chilometri, e voliamo a trovare l’ultimo personaggio di questa galleria di Australopiteci: il robustus, nelle savane del Sudafrica, nei pressi di Swtrkrawzs. È questo uno dei luoghi in cui è stato ritrovato il maggior numero di resti di robustus, centoventicinque individui: ed è grazie a questi ritrovamenti che è oggi possibile ricostruire alcune sue caratteristiche (per il boisei le ricostruzioni si basano sui dati ottenuti da resti di settanta individui). Riascoltiamo il nostro testimone oculare.

“AUSTRALOPITHECUS ROBUSTUS”: ANDANTE MA NON TROPPO
Qui il paesaggio non è molto diverso da quello in cui si aggiravano i boisei: è una savana arida, con poca acqua. Gli animali sono gli stessi: ma in zona si trova ancora la leggendaria tigre dai denti a sciabola, un predatore molto simile al leone, con due micidiali zanne lunghe una spanna che fuoriuscivano dalla bocca, e che gli servivano per azzannare e sventrare le prede.
   Ecco apparire in lontananza un gruppo di Autralopithecus robustus, di una quindicina di individui: ci sono maschi, femmine e piccoli. L’andatura è un po’ dondolante, di tipo scimmiesco e non troppo rapida, piccoli passi. Il loro alluce infatti è più piccolo del nostro, meno possente, e quindi l’appoggio del piede è diverso. Assomigliano moltissimo ai loro cugini boisei, stessa taglia, stesso peso, stesso volume celebrale. Anche il robustus ha una faccia larga e piatta, con enormi zigomi e potenti muscoli masticatori, ma i suoi tratti sono meno esasperati. Visti da lontano, i robustus, praticamente sono indistinguibili dai parenti dell’Africa orientale.
   Fanno parte della stessa famiglia, che si è separata con migrazioni successive? C’è chi lo pensa. Ma altri pensano che si tratti di una di quelle strane “convergenze evolutive” che sovente si verificano in natura. Capita spesso, infatti, che due specie (a volte anche molto diverse) assumano caratteristiche simili, come risultato di adattamento all’ambiente. Esistono casi molto eloquenti: basta pensare al giaguaro del Sud America, che assomiglia come una goccia d’acqua al leopardo africano, pur essendo evoluto in un continente del tutto separato. O addirittura al lupo marsupiale australiano (di recente scomparso) che assomigliava ai lupi nostrani pur derivando da una linea evolutiva del tutto diversa, quella appunto dei marsupiali.
   Anche nel caso degli Austalopithecus boisei e robustus è avvenuto qualcosa del genere? Cioè l’ambiente, il tipo di alimentazione disponibile, il clima, hanno finito per “plasmare” due modelli simili? Oppure si tratta di variazioni sul tema di una stessa forma che si estendeva verticalmente dall’Africa orientale al Sudafrica e di cui sono state trovate soltanto certe “estremità” geografiche? Forse in futuro, con nuovi ritrovamenti nella parte intermedia dell’Africa (per ora sterile di fossili), avremo la risposta.
   Nel frattempo il gruppo si è accovacciato. Anche i robustus sono vegetariani, e stanno estraendo dal terreno tuberi. Alcuni stanno ancora masticando dei frutti coriacei, dalla buccia sottile, trovati strada facendo.
   Di cos’altro si nutrono? Alan Walzer, dell’Università Johns Hopkins di Baltimora, ha analizzato ai microscopio le tracce di usura sui loro denti e ha scoperto che non esistono tracce né di erbe, né di ossa, né di radici. Ha scoperto molte somiglianze generali, invece, con lo scimpanzè: e lo scimpanzè si nutre non solo di frutta, ma di termiti, di formiche, di linfa, di uova e di piccoli animali.
   Intanto, due Australopithecus robustus stanno estraendo dal terreno dei tuberi: un cibo non sono nutriente ma che contiene anche un po’ d’acqua, trattenuta dalle sue fibre. Per estrarlo sembra che stiano manovrando qualcosa: forse dei pezzi d’osso, utilizzati come zappette per scavare. I robustus utilizzavano quindi già attrezzi, sia pure in modo rudimentale?
   Due ricercatori, C.K. Brain del Transvvi Museum e Randall Susman dell’Università di New York a Stony Brook, hanno esaminato con cura numerose schegge fossili di osso, associate a ritrovamenti di Australophitecus robustus, e hanno sospettato che le striature osservate al microscopio non siano casuali, ma piuttosto dovute a un uso intenzionale dell’osso. Hanno così avuto l’idea di prendere dei frammenti analoghi di ossa attuali e di andare a scavare tuberi in un terreno della stessa regione (è un po’ quello che la polizia scientifica fa quando vuol capire se due proiettili sono stati sparati dalla stessa pistola, grazie alle similitudini delle striature lasciate sui proiettili).
   Ebbene, utilizzando questi frammenti d’osso come scalpelli e zappette per estrarre tuberi, hanno ottenuto esattamente lo stesso risultato: una superficie più levigata con tracce simili a quelle osservate sui fossili.
   Che il robustus potesse utilizzare strumenti è confermato dalle ricostruzioni fatte della sua mano; è molto simile alla nostra, con dita dritte e un grosso pollice, indizio di una forte muscolatura e di una notevole capacità di manipolazione. Anche il polso ha una mobilità e una forma come la nostra.
   Tuttavia molti ritengono che le tracce di strumenti di quell’epoca (in osso o anche in pietra) non siano da attribuire al robustus ma a un altro personaggio molto importante: l’Homo habilis, che era suo contemporaneo e viveva nelle stesse zone (abitava del resto anche le regioni più a nord, nella stessa area dei boisei). Il “corpo del reato”sarebbe quindi da attribuire non al robustus ma ad altro individuo, molto più intelligente e “abile” di lui.


NOTA: Testi tratti dal libro di Piero e Alberto Angela ”LA STRAORDINARIA STORIA DELL’UOMO”, Milano 1989.

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