Quanto
indietro riuscite ad andare col vostro albero genealogico? Di solito dopo i
bisnonni o i trisavoli ci si perde nella nebbia. Volendo cercare nelle
parrocchie e risalire il filo delle parentele, se si è fortunati si può
arrivare fino al ‘600 (sono di quell’epoca infatti i primi registri
parrocchiali, voluti dal concilio di Trento). Ma prima del ‘600 solo alcuni
rari atti notarili possono illuminare l’albero del passato.
È vero che alcune famiglie della grande
aristocrazia riescono a risalire un po’ più in là: ma non poi di molto. Perché?
Anzitutto perché esse riescono, di solito, a conservare traccia solo di una
piccolissima parte dei loro antenati: se, per esempio, qualcuno volesse risalire
fino ai tempi dei crociati, contando tre generazioni per secolo (e naturalmente
due genitori per ogni antenato) arriverebbe in teoria alla bellezza di… due
miliardi di antenati! Fate voi stessi il conto.
È evidente che, in pratica, gran parte di questi
antenati si sovrappongono (perché le famiglie si incrociano continuamente): ma
ciò mostra quanto sia difficile ricomporre il mosaico degli avi.
D’altra parte, arrivando al’epoca dei Romani
o degli Etruschi tutti i fili si perdono, anche per famiglie più nobili: oltre
quell’epoca, infatti, manca qualsiasi documentazione scritta che permetta di
risalire più in là nel tempo. E i romani distano soltanto 20 secoli da noi. Se
volessimo ricercare le tracce dei nostri più lontani antenati dovremmo risalire
altri 40 mila secoli… E’ la differenza che esiste fra attraversare Roma e fare
il giro della Terra.
Eppure lungo tutti questi 40 mila secoli
esistono dei “registri”, dei “documenti”, delle “tracce”, che permettono di
scrivere (sia pure in modo molto diverso) la storia dei nostri progenitori:
sono i sedimenti, le impronte, i fossili, che nel corso delle ere sono rimasti
pietrificati nelle pieghe del terreno, e che solo negli ultimi decenni gli
scienziati hanno cominciato a ricercare in modo sistematico.
L’avventura della conoscenza in questo campo
è particolarmente difficile, ma molto stimolante: perché consente di indagare
su uno degli enigmi più affascinanti, quello delle origini dell’uomo.
Per tale indagine è necessario indossare i
pani di Sherlock Holmes, e partire alla ricerca di tutti gli indizi possibili,
analizzando anche i più piccoli frammenti che permettono di far luce sulla
vicenda. È proprio questo che cercheremo di fare.
“AUSTRALOPITHECUS”:
VARIAZIONI SUL TEMA
Letteralmente,
Australopiteco significa “scimmia australe”, ed è il nome che venne coniato
durante i primi ritrovamenti avvenuti, appunto, nell’Africa australe (il primo
avvenne a Taung, in Sudafrica, nel 1924).
Gli Australipiteci rappresentano oggi, agli
occhi degli investigatori, una strana famiglia, di cui non si sono ancora
capite bene le parentele. Essi infatti sono vissuti per un tempo lunghissimo,
almeno due milioni e mezzo di anni (da 3,7 a 1,2 circa) disseminati in varie zone
dell’Africa dell’Est e del Sud.
È una famigli di cui ci occuperemo
dettagliatamente, poiché essa sembra rappresentare la “zona” di transizione
verso forme via via sempre più umane. Sono esseri ancora abbastanza misteriosi,
a metà strada tra la scimmia e l’uomo, che hanno acceso la fantasia di scrittori,
disegnatori e anche registi (ricordate la scena iniziale di 2001:
Odissea nello spazio?). vediamo cosa esce fuori da un’indagine
scientifica, accurata.
Di Australopiteci ne sono stati identificati
sostanzialmente quattro tipi diversi: alcuni più gracili, altri più robusti,
alcuni più alti, altri più bassi, con dentature a volte differenti. A ognuno di
questi Australopiteci è stato attribuito il nome di una specie: la forma più
arcaica è stata chiamata Australopithecus afarensis (Lucy); quella
sudafricana Australophitecus africans; le due forme robuste: Australopithecus
boisei e Australopithecus robustus. I ritrovamenti sono praticamente
allineati lungo la cosiddetta Rift Valley (la grande “spaccatura” dell’Africa).
È importante sottolineare che 2,5 milioni di
anni sono un tempo lunghissimo: in pratica è il tempo che separa gli
Australopiteci da noi. E basta vedere quante cose sono cambiate negli ultimi
2,5 milioni di anni (non solo nella nostra linea evolutiva, ma anche in quella
di molti altri mammiferi) per renderci conto che le ramificazioni genealogiche
di questi Australopiteci debbono essere state piuttosto complesse. Per ora
cominciamo col prendere atto che in quel lungo periodo si sono trovati resti di
ominidi che presentano, sia pure nella loro diversità, alcune caratteristiche
comuni. Vediamo di ricostruire una loro scheda segnaletica.
In comune gli Australopiteci hanno
sostanzialmente taluni caratteri di base:
1) Corpo: adattato al bipedismo permanente
(anche se alcuni, come l’afarensis, erano probabilmente anche
buoni arrampicatori).
2) Cervello: molto piccolo. Il volume,
calcolato in base alle dimensioni della scatola cranica, varia in un arco
compreso tra 400-550
centimetri cubici (l’equivalente di mezzo litro). È
interessante notare che, sebbene l’evoluzione degli Australopiteci copra un
periodo di oltre 2 milioni di anni, la loro capacità cranica è aumentata di
poco (con l’Homo habilis, che segue a ruota, la capacità cranica balza
rapidamente a 60-800
centimetri cubici).
3) Faccia: ancora molto scimmiesca, con
zigomi pronunciati e un forte prognatismo (visti di profilo, cioè, hanno la
parte inferiore del viso, quella delle mascelle e dei denti, molto sporgente in
avanti: come le scimmie, appunto).
4) Dentatura: in via di evoluzione verso di noi,
ma ancora fortemente arcaica. Lo smalto dei molari (beati loro) è
incredibilmente spesso: ma anche sottoposto a forte usura.
5) Dieta: dall’analisi dei denti gli
Australopiteci risultano sostanzialmente vegetariani, sia pure con tipi di
alimentazione differenti come vedremo.
6) Differenza
maschi-femmine:
presentano tutti uno spiccato dimorfismo sessuale: cioè i maschi sono
nettamente più grandi delle femmine. Questa è una caratteristica di molti
primati, in particolar modo scimpanzè e gorilla (anche nella nostra specie
esiste un dimorfismo sessuale, gli uomini cioè sono mediamente più alti e
robusti delle donne, ma di poco: tra gli Australopithecus boisei il
dimorfismo era così accentuato che nei primi ritrovamenti si pensò trattarsi di
due specie diverse e non di maschi e femmine). Ma sulla questione del
dimorfismo bisogna essere prudenti, poiché solo un consistente numero di nuovi
ritrovamenti permetterà di valutare queste differenze su base statistica.
Accanto a questi caratteri che li accomunano, gli Australopiteci presentano,
tuttavia, anche notevoli differenze.
Non
bisogna infatti dimenticare che questi ominidi vivevano in ambienti e climi
diversi: e tutta la biologia ci insegna che un essere vivente viene “modellato”
dall’ambiente in cui vive, attraverso la selezione naturale. In particolare la
disponibilità di certi cibi piuttosto che di altri crea solitamente delle
“specializzazioni” che si riflettono in certe strutture dell’organismo, come
vedremo tra poco.
Cerchiamo però intanto di vedere gli Australopiteci
nella loro successione nel tempo (nel loro “albero cronologico”, per così
dire): per capire se un qualche filo conduttore può venire fuori dagli indizi
finora raccolti sul terreno.
“Australopithecus
afarensis: l’Overture
L’australopiteco
più antico, riconosciuto da tutti, è per ora l’afarensis (vissuto dai 3,7 ai
2,8 milioni di anni fa). Anche i frammenti più antichi, risalenti a oltre 4
milioni di anni, si ritengono appartenenti a questa linea, che è quella di
Lucy.
Cosa dice la “scientifica” in proposito?
L’esame dei denti mostra che l’afarensis usava molto gli incisivi:
questo è un adattamento tipico di chi mangia frutta. Perché?
Ebbene, ormai si sa che la dentatura è un
indizio molto eloquente del modo di addentare o di masticare il cibo: per
esempio i leoni posseggono lunghi canini per azzannare le prede, e potenti
molari fatti “a forbice” (denti ferini) per tagliare e spezzare ossa e carne;
ma hanno incisivi piccoli.
I roditori invece (come il topo, il
coniglio, il castoro) hanno forti incisivi a crescita continua, per far fronte
alla grande usura del loro continuo rodere: al punto che se si bloccassero le
mascelle i denti crescerebbero in continuazione, diventando zanne ricurve,
simili a quelle del facocero. I bovini posseggono invece grandi denti molari
(anch’essi a crescita continua) per macinare erba senza sosta; negli elefanti
questi denti molari sono vere e proprie super-macine.
La dentatura dell’afarensis, priva di
grandi molari, priva di grandi canini, ma con incisivi sviluppati, indicherebbe
un tipo di adattamento idoneo, appunto, a mangiare soprattutto frutta, da
mordere, sbucciare e spezzare con gli incisivi anteriori (anche se altri indizi
portano a ritenere che l’afarensis fosse occasionalmente
onnivoro).
Ma un individuo che mangia molta frutta è un
individuo, ovviamente, che deve saper salire bene sugli alberi: è il caso dell’afarensi? Ebbene, effettivamente gli
studi effettuati, in particolare sulla mano e sul piede, indicherebbero che le
dita dell’afarensis non erano dritte,
come le nostre, ma ricurve: le falangi mostrano chiaramente una curvatura
tipica degli animali arboricoli. Dal momento però che oggi sappiamo (impronte
di Laetoli) che era un bipede perfetto, ben adattato alla vita a terra, se ne
può concludere che l’afarensis
alternava la deambulazione terrestre con la salita sugli alberi, dove trovava
una parte del cibo e forse rifugio per la notte (anche se può darsi che
esistessero varietà più specializzate nell’una o nell’altra cosa).
Ecco come una attenta analisi dei denti, dei
piedi e delle mani, in combinazione tra loro, può rivelarci qualche frammento
del comportamento di questo antichissimo ominide. Un essere cioè terrestre ma
ancora adattato alla vita sugli alberi, ghiotto di frutta ma probabilmente
onnivoro e capace di vivere in ambienti diversi, di tipo semi-forestale e
savana alberata. È forse proprio questa sua capacità di adattamento ai climi
che gli ha permesso di vivere un milione di anni, praticamente senza cambiare.
Altro sull’afarensis è difficile dire, senza entrare in ipotesi non suffragate
da prove o indizi: è infatti molto difficile riuscire a ricostruire avvenimenti
che risalgono non a millenni, ma a milioni di anni fa.
Un ultimo dato è che gli afarensis vivevano con ogni probabilità
in gruppo (come fanno del resto gorilla e scimpanzè): sembra indicarlo il
ritrovamento di almeno tredici individui morti tutti insieme e rinvenuti
nell’Hadar, nel sito 333. Su questi tredici individui, bisogna dire, sono nate
molte discussioni e anche polemiche: alcuni ritengono infatti che in questi
resti si possano intravedere due forme contemporanee, ma una più moderna e
l’altra più arcaica. Per avere più informazioni e conferme basterebbe
ovviamente riuscire a trovare altri fossili nella zona: purtroppo l’Hadar si
trova oggi in zona guerrigliera…
SUDAFRICA: CENTO
CAVERNE PER UN DE PROFUNDIS
L’australopithecus
afarensis scompare dalla scena intorno ai 2,8 milioni di anni fa. E verso
quella stessa epoca (forse un po’ prima) fa la sua apparizione un nuovo
personaggio, un Australopiteco che ha con lui alcuni tratti comuni, ma si
differenzia per altri.
Un suo parente? Un suo discendente? Per
carità, non entriamo in questo ginepraio… Ci basta sapere che questo nuovo tipo
di Australopiteco, chiamato africanus, si trova soltanto in Sudafrica, a oltre
3 mila chilometri di distanza. La cosa curiosa è che i suoi resti sono stati
ritrovati soprattutto all’interno di caverne: non perché vi abitasse, ma perché
un insieme di meccanismi che i detectives
della paleoantropologia sono riusciti a capire.
La regione, va detto, è quella del
Transavaal, ricca, come è noto, di miniere di diamanti. E la zona in cui si
sono trovati gli ominidi e una specie di groviera calcarea: una zona “carsica”
come si dice (simile al nostro Carso), dove esiste una rete sotterranea di
gallerie e caverne, con corsi d’accqua che scompaiono e riappaiono. E sono
proprio i corsi d’acqua generati dalle piogge ad aver scavato internamente
questo reticolo e queste “sacche”.
In certi punti di queste zone carsiche si è
osservato che esistono dei fori verticali, dei pozzi in parte riempiti da
sedimenti fossili: e si è capito che in questi pozzi possono essere cadute in
passato varie cose trascinate dall’acqua, come foglie, sedimenti e anche scheletri
che si trovavano nelle vicinanze.
Ma cosa ci facevano ominidi e animali in
quelle vicinanze? L’ipotesi è la seguente. In quella zona non c’erano all’epoca
molti alberi (lo si è accertato grazie ad altri indizi): punti tipici per la
crescita di alberi potevano essere però le nicchie umide in prossimità dei
pozzi. E sugli alberi ci salivano, a quel tempo, i leopardi per consumare
tranquillamente i loro pasti e “parcheggiare” le loro prede (così come fanno
oggi) in modo da tenerle fuori dalla portata delle iene. È in questo modo che
vari resti d’animali, caduti a un certo punto dagli alberi, sarebbero rotolati
(trascinati anche dall’acqua delle piogge)nelle caverne sottostanti. La stessa
cosa sarebbe accaduta anche per certi ominidi.
Che le cose siano andate così lo dimostrano
i rilevamenti fatti su una delle “vittime” ritrovate: due inconfondibili segni
lasciati dall’ “assassino” sul cranio di un giovane Australopiteco (robustus). Questo infatti portava
chiaramente incise nella calotta le impronte delle zanne del leopardo, che deve
averlo addentato in questo modo per issarlo sull’albero. Due piccoli segni che
hanno permesso di ricostruire, dopo 2,5 milioni di anni, un dramma silenzioso
avvenuto nella savana del Sudafrica.
Esistono però anche altre possibili
spiegazioni: in certe caverne, aperte sui lati, possono essere penetrate iene
trascinando con sé resti di pasti. O addirittura certi Australopiteci possono
aver occasionalmente abitato le grotte ed essere stati sorpresi da un predatore
(è quello che talvolta capita ancora oggi ai babbuini della zona).
Ma come erano questi
Australopiteci della specie africanus?
“AUSTRALOPITHECUS
AFRICANUS”: ADAGIO, SENZA STRUMENTI
Dal
punto di vista fisico non erano molto diversi dai loro “colleghi” afarensis: la taglia era di circa 1 metro e 35, il peso
intorno ai 30 chili. La faccia ancora molto scimmiesca, con un marcato
prognatismo (cioè una specie di “muso” sporgente) e dei forti zigomi. Anche l’africanus aveva arcate sopraccigliari
molto accentuate. Insomma anche lui, se circolasse oggi per strada, verrebbe
subito catturato e rinchiuso in uno zoo, sia pure con lo stupore di vederlo
camminare così bene su due piedi.
Di
frammenti ne sono stati trovati moltissimi, addirittura di centinaia di
individui diversi. Soprattutto denti. E i denti hanno mostrato che questo Australopithecus africanus aveva una
dieta probabilmente un po’ diversa dall’afarensis;
gli incisivi erano più piccoli e i molari più grandi. Lo studio dei denti ha
fatto così ipotizzare che si nutrisse di vegetali fibrosi (un po’ più duri da
masticare della frutta) e anche di piccole prede occasionali. E forse persino
di pezzi di carne strappati a qualche carcassa abbandonata da predatori.
I denti hanno inoltre permesso di calcolare
l’età della morte. Un ricercatore ha esaminato al microscopio oltre
quattrocento denti di vario tipo, riuscendo a stabilire il loro livello di
dentizione e il grado di usura: ne è risultata un’età media di ventidue anni…
Si moriva giovani nelle savane africane. Questi dati, del resto, corrispondono
ad altre indagini analoghe, fatte in altre zone con altri individui.
L’africanus era più intelligente dell’afarensis? Dalle dimensioni del
cranio non è possibile dirlo, anche se il volume celebrale era leggermente
superiore (circa 430-500
centimetri cubici). Alcuni esemplari, tuttavia, mostrano
forse un volume potenzialmente maggiore, come il famoso cranio di Taung (il
primo ominide trovato in Africa, nel 1924, quello venuto inaspettatamente alla
luce con l’esplosione di una carica di dinamite in una cava). Ebbene il cranio
di Taung si ritiene appartenga a un bambino di cinque-sei anni e mostra già un
volume celebrale di 500
centimetri cubici: e ciò corrisponderebbe a 600 centimetri da
adulto. È anche vero, però, che questo cranio appartiene all’ultimo periodo
dell’africanus: circa 2 milioni di
anni fa.
Raymond Dart, che negli anni Venti e Trenta
fu il primo a raccogliere e a studiare questi fossili, ipotizzò, sulla base di
certi reperti trovati nelle vicinanze, che questi ominidiusassero già degli
strumenti in osso. Non solo, ma ritenne che questi Australopiteci fossero dei
violenti killer di babbuini: in certe caverne, accanto a resti di ominidi,
furono infatti trovati molti teschi di babbuini che mostrano uno sfondamento della
zona parietale sinistra del cranio, come se fossero stati colpiti violentemente
da un colpo contundente maneggiato da un destrorso. E Dart li descrisse come
sistematici uccisori che massacravano furiosamente i babbuini bevendone poi il
sangue ancora caldo.
In realtà studi più accurati hanno smentito
tutte queste ipotesi: alcuni ricercatori, da bravi investigatori, hanno
studiato sistematicamente le tane attuali delle iene, e confrontando i resti
dei loro pasti con le ossa trovate in Sudafrica hanno scoperto che presentavano
le stesse tracce di denti e le stesse fratture: non si trattava quindi di
strumenti, ma semplicemente di frammenti di ossa masticate dalle iene.
I babbuini, dal canto loro, non erano stati
uccisi dell’Australopithecus africanus,
ma erano stati forse trascinati in caverna dalle stesse iene: quanto alle
pareti craniche sfondate si capì che ciò era il frutto non di una furia
assassina, ma semplicemente della pressione dei sedimenti sovrapposti, che
avevano, col tempo, schiacciato e “massacrato” i teschi.
L’africanus,
come probabilmente anche gli altri Australopiteci, non era insomma
quell’individuo sanguinario che Raymond Dart aveva creduto di avere: anzi era
forse un essere molto pacifico e gentile. Perché i suoi denti, come quelli
dell’afarensis, mostrano una chiara
vocazione vegetariana; non era un predatore, ma eventualmente una preda (forse
dei leopardi, come abbiamo visto prima per il robustus).
È probabile quindi che percorresse savane
non con lo sguardo del killer, ma con quello di un essere mite, preoccupato
probabilmente di non fare cattivi incontri, desideroso soltanto di trovare in
giro i suoi vegetali preferiti, magari un po’ di uova e qualche roditore. E
l’indispensabile acqua.
“AUSTRALOPITHECUS
BOISEI”: SUITE DALLO “SCHIACCIANOCI”
Ma
è ora il momento di introdurre altri due straordinari personaggi. Due
personaggi che hanno percorso in lungo e in largo queste savane africane tra 2
e 1,2 milioni di anni fa: l’Australopithecus
boisei e l’Australophitecus robustus.
A vederli, nelle ricostruzioni fatte da esperti, sembrano qualcosa a metà
strada tra un gorilla intelligente e un pugile completamente rintronaro…
Come erano esattamente? Pur essendo vissuti
in luoghi molto lontani (il boisei in Africa orientale e il robustus
in Sudafrica) si assomigliavano come parenti stretti. Immaginiamo di
tornare in una di quelle savane, e di osservarli da lontano, senza essere
visti. Ecco quello che potrebbe raccontare un testimone oculare.
Un gruppo di una quindicina di boisei
sta attraversando una zona ondulata di colline piatte, su una discesa di erba
gialla e qualche cespuglio. Giunto in un ampio avvallamento tra due colline, il
gruppo si disperde. Alcuni si sono fermati a raccogliere delle bacche, altri si
sono chinati per estrarre dei tuberi dalla terra. In lontananza si scorgono
delle gazzelle e all’orizzonte alcune giraffe dai movimenti al rallentatore.
Forse anche qualche leone è nei paraggi.
Il clima è molto secco. Ci sono pochi alberi
in giro: qualche acacia e macchie boschive. Non lontano da qui c’è un grande
lago azzurro: i boisei si stanno
probabilmente dirigendo verso il consueto punto d’acqua. Non so molto alti:
poco più di un metro e mezzo. Le femmine, che hanno accanto i bambini, sono più
piccole. Sembrano avere una pelle scura e un corpo coperto di peli: ma dal
nostro punto di osservazione non si riesce a scorgere bene.
Tutti appaiono molto massicci. La testa in
particolare è larga, con immensi zigomi, un naso schiacciato e una faccia
piatta. Molti stanno masticando: le radici e i frutti che hanno raccolto sono
molto coriacei, e richiedono una lunga macinazione coi denti. Questi ominidi si
sono ben adattati a un ambiente non facile e riescono a sopravvivere benissimo
con un cibo che noi non riusciremmo nemmeno a digerire. A ogni movimento delle
mascelle le tempie si gonfiano: sono gli enormi muscoli temporali che entrano
in azione per macinare il cibo duro. Questi muscoli sono talmente potenti che
raggiungono addirittura la sommità del cranio, dove si uniscono in una specie
di cresta ossea che costituisce il punto di attacco muscolare. Assomigliano un
po’, in questo, ai gorilla.
Tutta l’architettura del teschio e dei denti
è influenzata da questa esigenza di masticare a lungo: anche i denti, infatti,
sono possenti come schiaccianoci. Non gli incisivi e i canini
(proporzionalmente piccoli) ma i molari, che sono vere e proprie mole. Basta
pensare che la corona dei nostro molari normalmente è lunga un centimetro:
quelle del boisei possono raggiungere i due centimetri e mezzo. Questo
significa, in volume, circa sei-otto volte i nostri… la sua testa come ha detto
qualcuno è praticamente un mulino.
Questa architettura fa sì che anche il
cervello sia spostato indietro: la fronte è quasi inesistente e gli spessori sovraorbitali
sono così accentuati da formare una vera e propria visiera sopra gli occhi.
Eppure il cervello del boisei, malgrado questo aspetto
scimmiesco, raggiunge già i 550 centimetri cubici: un volume molto più
elevato che nelle scimmie antropomorfe. Non solo, ma i solchi e le
circonvoluzioni dell’encefalo (rilevati indirettamente dalle impronte interne
del teschio) sembrerebbero indicare un disegno assai più complesso. Sotto le grandi arcate sopraccigliari
lampeggiano due piccoli occhi.
La sua intelligenza? Il fatto che sia
vegetariano, e quindi non un cacciatore, lascia presumere che non disponga di
quella capacità di immaginazione strategica che hanno solitamente i predatori.
Improvvisamente tutti si immobilizzano e
alzano la testa. Un pericolo sembra incombere. Le madri stringono a sé i figli.
Il gruppo si riunisce: si sentono richiami incomprensibili. Qualcuno tiene un
bastone tra le mani. Ma è un falso allarme e ben presto i boisei si rimettono in
marcia verso il lato destro della collina. E poco dopo spariscono dalla nostra
vista.
IL “BLACK SKULL”:
LARGO E FORTISSIMO
Da
chi discenda il boisei non si sa ancora bene (ci sono varie ipotesi in
proposit), ma recentemente si è trovato un suo probabile antenato: è uno
stupefacente cranio che risale a oltre mezzo milione di anni prima (cioè 2,5
milioni di anni fa), rinvenuto da Alan Walzer nei pressi del lago Turkana in
Kenya, di colore nero (il Black Skull), e classificato con la sigla
KNMWT-17.000.
Quest’individuo era già a quel tempo una
specie di macina vivente, con una grande cresta sul cranio e una struttura
mascellare per così dire “aerodinamica”, tutta progettata per queste sue
esigenze di macinare cibi coriacei. Una specie di Ferrari della masticazione,
insomma…
Il Black Skull (che alcuni, come Johanson,
hanno proposto di chiamare Australopithecus aethiopicus per via di una
mandibola frammentaria trovata precedentemente in Etiopia e che sembra
appartenere allo stesso tipo di individuo) è, in un certo senso, un segno dei
suoi tempi: infatti la sua apparizione (2,5 milioni di anni fa) coincide con un
importante evento climatico che ha certamente avuto grosse ripercussioni
nell’evoluzione della fauna e della flora in quella parte dell’Africa. In quel
periodo, infatti, per ragioni che ancora non si capiscono bene, ma nelle quali è
coinvolta anche l’espansione dei ghiacci polari, il clima divenne molto più
arido e molte zone alberate scomparvero: cominciarono così ad affermarsi
individui maggiormente “attrezzati” per il tipo di alimentazione disponibile
nelle zone secche, come appunto vegetali coriacei.
È proprio in questo tipo di ambiente che si
sono trovati non solo il Black Skull ma anche il boisei,
e in Sudafrica il robustus: tutte autentiche macine ambulanti, capaci di estrarre
il massimo di nutrimento e di calorie dai frutti e dai vegetali della zona,
grazie proprio alla loro capacità di atomizzarli con i denti.
Facciamo allora un balzo di 3 mila
chilometri, e voliamo a trovare l’ultimo personaggio di questa galleria di
Australopiteci: il robustus, nelle savane del Sudafrica, nei pressi di Swtrkrawzs.
È questo uno dei luoghi in cui è stato ritrovato il maggior numero di resti di robustus, centoventicinque individui: ed
è grazie a questi ritrovamenti che è oggi possibile ricostruire alcune sue
caratteristiche (per il boisei le ricostruzioni si basano
sui dati ottenuti da resti di settanta individui). Riascoltiamo il nostro
testimone oculare.
“AUSTRALOPITHECUS
ROBUSTUS”: ANDANTE MA NON TROPPO
Qui
il paesaggio non è molto diverso da quello in cui si aggiravano i boisei:
è una savana arida, con poca acqua. Gli animali sono gli stessi: ma in zona si
trova ancora la leggendaria tigre dai denti a sciabola, un predatore molto
simile al leone, con due micidiali zanne lunghe una spanna che fuoriuscivano
dalla bocca, e che gli servivano per azzannare e sventrare le prede.
Ecco apparire in lontananza un gruppo di Autralopithecus robustus, di una
quindicina di individui: ci sono maschi, femmine e piccoli. L’andatura è un po’
dondolante, di tipo scimmiesco e non troppo rapida, piccoli passi. Il loro
alluce infatti è più piccolo del nostro, meno possente, e quindi l’appoggio del
piede è diverso. Assomigliano moltissimo ai loro cugini boisei, stessa taglia,
stesso peso, stesso volume celebrale. Anche il robustus ha una faccia
larga e piatta, con enormi zigomi e potenti muscoli masticatori, ma i suoi
tratti sono meno esasperati. Visti da lontano, i robustus, praticamente sono
indistinguibili dai parenti dell’Africa orientale.
Fanno parte della stessa famiglia, che si è
separata con migrazioni successive? C’è chi lo pensa. Ma altri pensano che si
tratti di una di quelle strane “convergenze evolutive” che sovente si
verificano in natura. Capita spesso, infatti, che due specie (a volte anche
molto diverse) assumano caratteristiche simili, come risultato di adattamento
all’ambiente. Esistono casi molto eloquenti: basta pensare al giaguaro del Sud
America, che assomiglia come una goccia d’acqua al leopardo africano, pur
essendo evoluto in un continente del tutto separato. O addirittura al lupo
marsupiale australiano (di recente scomparso) che assomigliava ai lupi nostrani
pur derivando da una linea evolutiva del tutto diversa, quella appunto dei
marsupiali.
Anche nel caso degli Austalopithecus boisei e robustus
è avvenuto qualcosa del genere? Cioè l’ambiente, il tipo di alimentazione
disponibile, il clima, hanno finito per “plasmare” due modelli simili? Oppure
si tratta di variazioni sul tema di una stessa forma che si estendeva
verticalmente dall’Africa orientale al Sudafrica e di cui sono state trovate
soltanto certe “estremità” geografiche? Forse in futuro, con nuovi ritrovamenti
nella parte intermedia dell’Africa (per ora sterile di fossili), avremo la
risposta.
Nel frattempo il gruppo si è accovacciato.
Anche i robustus sono vegetariani, e stanno estraendo dal terreno tuberi.
Alcuni stanno ancora masticando dei frutti coriacei, dalla buccia sottile,
trovati strada facendo.
Di cos’altro si nutrono? Alan Walzer,
dell’Università Johns Hopkins di Baltimora, ha analizzato ai microscopio le
tracce di usura sui loro denti e ha scoperto che non esistono tracce né di
erbe, né di ossa, né di radici. Ha scoperto molte somiglianze generali, invece,
con lo scimpanzè: e lo scimpanzè si nutre non solo di frutta, ma di termiti, di
formiche, di linfa, di uova e di piccoli animali.
Intanto, due Australopithecus robustus stanno estraendo dal terreno dei tuberi:
un cibo non sono nutriente ma che contiene anche un po’ d’acqua, trattenuta
dalle sue fibre. Per estrarlo sembra che stiano manovrando qualcosa: forse dei
pezzi d’osso, utilizzati come zappette per scavare. I robustus utilizzavano quindi già attrezzi, sia pure in modo
rudimentale?
Due ricercatori, C.K. Brain del Transvvi
Museum e Randall Susman dell’Università di New York a Stony Brook, hanno
esaminato con cura numerose schegge fossili di osso, associate a ritrovamenti
di Australophitecus
robustus, e hanno sospettato che le striature osservate al microscopio
non siano casuali, ma piuttosto dovute a un uso intenzionale dell’osso. Hanno
così avuto l’idea di prendere dei frammenti analoghi di ossa attuali e di
andare a scavare tuberi in un terreno della stessa regione (è un po’ quello che
la polizia scientifica fa quando vuol capire se due proiettili sono stati
sparati dalla stessa pistola, grazie alle similitudini delle striature lasciate
sui proiettili).
Ebbene, utilizzando questi frammenti d’osso
come scalpelli e zappette per estrarre tuberi, hanno ottenuto esattamente lo
stesso risultato: una superficie più levigata con tracce simili a quelle
osservate sui fossili.
Che il robustus potesse utilizzare
strumenti è confermato dalle ricostruzioni fatte della sua mano; è molto simile
alla nostra, con dita dritte e un grosso pollice, indizio di una forte muscolatura
e di una notevole capacità di manipolazione. Anche il polso ha una mobilità e
una forma come la nostra.
Tuttavia molti ritengono che le tracce di
strumenti di quell’epoca (in osso o anche in pietra) non siano da attribuire al
robustus
ma a un altro personaggio molto importante: l’Homo habilis, che era suo
contemporaneo e viveva nelle stesse zone (abitava del resto anche le regioni
più a nord, nella stessa area dei boisei). Il “corpo del reato”sarebbe
quindi da attribuire non al robustus ma ad altro individuo,
molto più intelligente e “abile” di lui.
NOTA: Testi tratti dal libro di Piero e
Alberto Angela ”LA
STRAORDINARIA STORIA DELL’UOMO”, Milano 1989.
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