venerdì 27 novembre 2015

UNIVERSITA' DELLE TRE ETA' (27 novembre 2015) IL TERRITORIO DELLA VALLE D’AGRO’



Santa Teresa di Riva (Messina). Ad aprire la serata dedicata al territorio della Valle d’Agrò il presidente Santino Albano, il quale passa subito la parola all’esperto storico Carlo Gregorio.
Un ricco escursus fra storia ed opere architettoniche quello di Gragorio, durante il quale egli si sofferma, fra le tante immagini del maxi schermo in sequenza, fra la cattedrale di Alì Superiore ed i suoi interni, la chiesa madre di Fiumedinisi coi suoi mascheroni apotropaici posti sulle mura merlate ed i tesori gelosamente conservati in cassaforte al suo interno:
dal reliquario in argento lavorato, contenente il capello della Madonna, risalente al 1722, il quale fu donato dagli spagnoli per l’aiuto offerto dai fiumedinisani alla loro vittoriosa causa. E ancora, solo per fare un altro illustre esempio, l’olio su tela raffigurante la Madonna del Rosario, che fu realizzato dall’artista fiorentino Agostino Ciampelli (1620).
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Fra gli altri paesi della Valle, accenna di Sant’Alessio Siculo e racconta della battaglia fra Pompèo ed Ottaviano di cui rimarrebbe ancora un relitto da visitare.
E tornando alla Terra di Fiumedinisi, tra i vari documenti storici proiettati, una pergamena (conservata a Toledo in Spagna), risalente al lontano 1093, che racconta della costruzione del monastero di San Licandro eretto sulle rovine di quello di San Nicone, quest’ultimo risalente agli albori del cristianesimo, ma c’è anche un’altra pergamena (scritta in greco, come si usava fare all’epoca), che si trova a Parigi e racconta dei confini del territorio della valle d’Agrò.
Ci vorrebbe una enciclopedia per racchiudere il sapere di Gragorio fatto di ricerche in anni vissuti in giro per l’Europa, egli oltretutto mostra entusiasmo nel raccontare di accadimenti storici e tanto più della sua Fiumedinisi, dei “Viaggi”, tragitto devozionale che i fedeli percorrono in ginocchio con cadenza annuale tra la chiesa di San Pietro e quella della Madonna annunziata, sino a finire con la immensa festa della Vara, dove a sollevare la pesantissima macchina votiva popolata di personaggi veri, sarebbero circa centocinquanta portatori, tutti vestiti di bianco.
Questi sono racconti che appassionano i presenti, tanto più se cultori del sapere, della vita del nostro territorio fra ieri ed oggi, di ricordi di epoche lontane, di ricchezze e bellezze e fede, ricchezze che noi abbiamo e di cui possiamo andare fieri. L’applauso finale era d’obbligo.
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27 novembre 2015
Giovanni BonarRIGO

martedì 24 novembre 2015

SICILIA. LE ORIGINI: IL PERIODO PALEOLITICO E NEOLITICO (parte seconda)

UN NEOLITICO D’IMPORTAZIONE - Il Neolitico si mostra al ricercatore più penetrabile e meno misterioso del Paleolitico, identificabile per le sue diffuse testimonianze archeologiche. Il passaggio dal paleolitico al neolitico, anche se si attua per gradi di sviluppo della civiltà umana, ad un certo punto mostra una verticale frattura col passato, offrendo allo studioso segni tangibili del nuovo sistema di vita di quelle popolazioni. Esse finalmente rivolgono le loro fatiche quotidiane non solo alla caccia, ma all’allevamento del bestiame e anche alla terra, coltivandola e commercializzando i prodotti ottenuti. Sorgono delle vere e proprie comunità umane con compiti individuali definiti nel loro ambito e con strutture organiche d’imperio.
La civiltà dell’uomo neolitico prevede sistemi abitativi più comodi e quindi diversi dalle caverne; ed ecco comparire i primi insediamenti capannicoli, anche se parecchie popolazioni in questo periodo ed oltre continueranno a risiedere nelle grotte, magari meglio attrezzate, fornite talora da sistemi d’areazione (sfiatatoi: Favignana), di utensili di uso domestico vario, necessari alle comodità giornaliere, ottenuti levigando la pietra o impastando l’argilla. Sorge finalmente e in maniera diffusa il gusto del bello, del decorativo.
Nel territorio della Sicilia è accertata la presenza, nel periodo post-paleolitico, di due popoli di cultura e tradizioni diverse: i Siculi e i Sicani, che non erano, di certo, indigeni isolani; almeno uno dei due dovette giungere in Sicilia dopo un’immigrazione di massa, tipica di quei periodi, proveniente da qualche paese del bacino del Mediterraneo. Altrimenti sia Siculi sia Sicani sarebbero lo stesso popolo, mentre le scoperte archeologiche mettono in evidenza caratteri culturali del tutto differenti.
È deducibile, quindi, che non esista un vero e proprio Neolitico siciliano, ma una cultura importata ed assimilata. Infatti, il neolitico isolano presenta in tutta la sua “facies” di sviluppo i caratteri tipici di altre civiltà mediterranee.
Le prime manifestazioni neolitiche in Sicilia si hanno con la “cultura di Stentinello” (Siracusa) (5000-4500 a. C.), abbracciante un’area di sviluppo attorno a 30.000 mq. Trattasi di un insediamento capannicolo di forma ovale con gli abitanti dediti all’agricoltura, alla pastorizia e alla produzione di manufatti di ceramica cotta, decorati con disegni geometrici e figurativi schematizzati, espressione del buon gusto raggiunto da quegli artigiani. Anche a Megara Iblea, a Licata e nelle Lipari compaiono segni della cultura stentinelliana con ceramiche d’argilla depurata, decorate a strisce rosse.
Produzioni similari sono state rinvenute in Puglia e in altri territori dell’Italia peninsulare, e dimostrano l’importazione di tecniche di lavorazione e di decorazione da parte dei popoli provenienti dall’Italia, tra cui i Siculi, installatisi nella Sicilia orientale. L’industria litica stentinelliana, sviluppatasi in buona parte nella Sicilia orientale, si serve di selce e di ossidiana, che all’epoca fu il principale materiale di questi popoli.
Altre civiltà neolitiche isolane di notevole sviluppo sono quelle di Matrensa, di Fontana, di Papa, di Mègara Iblea e di Thapsos. La cultura di Thapsos merita uno sguardo per il salto culturale ch’essa segna nel percorso dell’assise abitativa. La nuova struttura residenziale, di forma rettangolare, presenta il superamento delle capanne ed un’area di servizio familiare data da cortile pavimentato. Il complesso urbanistico che ne deriva, assieme ai diversi reperti archeologici rinvenuti, evidenzia uno sviluppo culturale avanzato rispetto alle restanti civiltà siciliane contemporanee (XIV-XIII sec. a. C.), sostenuto da consistenti influssi provenienti dal mondo egeo. Altra civiltà indicativa, ma, invero, più giovane è quella Pantalica (XIII-VIII sec. a. C.), che indica un sicuro collegamento con quella micenea. I resti dell’ “amaktoron” (reggia, situati sulle sommità del monte, sono, infatti, assimilabili al “megaron” di Micane. Le cinque spettacolari necropoli, composte da ben 5.000 tombe a grotticella naturale sono, per numero, impressionanti e non riscontrabili nell’intera regione mediterranea.
Verso il 4500 a. C. la facies culturale neolitica subisce profonde mutazioni soprattutto nelle isole Eolie, ove le popolazioni abbandonano i territori pianeggianti e fertili per situarsi nelle parti più elevate, a dimostrazione di pericoli incombenti, e dove fa apparizione un nuovo tipo di ceramica levigata, lucida, di colore bruno, segnata a bande rosse e nere con interessanti motivi geometrici, riscontrabili nella cultura jugoslava di Danilo e della Grecia.
In Sicilia questa seconda fase del neolitico, che potrebbe definirsi medio, presenta il carattere del ristagno delle attività culturali, come a significare uno spostamento dell’epicentro di floridezza verso le isole Eolie. Qui, grazie ai grandi giacimenti di ossidiana, si erano intessuti intensi scambi commerciali con le popolazioni delle isole napoletane e della costa campana: si era aperta così un’importante via marittima di comunicazione verso i territori peninsulari.
È con la cultura eoliana di Piano Conte che le isole Lipari perdono d’importanza, ridando alla Sicilia il suo naturale primato. D’ora in poi esse cesseranno di gravitare verso la penisola italiana per ritornare a far parte integrante della cultura della Sicilia orientale, in tutte le sue successive manifestazioni, anche quando si avrà un nuovo periodo della loro attività, con la cultura dell’età del bronzo di Capo Graziano. Infatti, l’ultima fase del neolitico eoliano (cultura di Piano Quartara) si svolgerà con caratteristiche unitarie sia nelle Lipari che in Sicilia.
L’età del rame in Sicilia presenta due facce culturali, talora non chiaramente distinte: quella occidentale e quella orientale, entrambe condizionate da egemonie provenienti dal mondo egeo-anatolico. Nell’Oriente siculo si svolge, in questo periodo, la civiltà di Castelluccio (Noto) (XVIII-XV sec. a. C.), la cui area di sviluppo, oltre a comprendere la regione dell’Etna, giunge fino ad Agrigento, delimitando sin da adesso le prime zone d’influenza tra le venture civiltà punica ed ellenica.
Pur presentando la civiltà di Castelluccio un’ampia facies unitaria di base su tutto il territorio di influenza, essa mostra tre volti per gli innesti con le civiltà locali agrigentine, siracusane e catanesi.
L’età del bronzo della Sicilia orientale, identificabile con la civiltà di Castelluccio, prevede piccoli villaggi posti su zone collinari fertili, adatte all’agricoltura, in prossimità di fiumi (Castiglione, Monte Casasia) e non di rado in prossimità del mare (Corridore, Passo Marinaro, Canalotti, Thapsos, Trapani). Le capanne in pietra assumono forme geometriche ovali o circolari, quasi perfette; viene abbandonata la precedente forma rettangolare e l’uso del legno viene riservato, assieme a fango e paglia, per la copertura.
Nei numerosi villaggi, generalmente sforniti di fortificazioni difensive, il materiale ritrovato è dato da macine, oggetti di selce, pithoi, ceramiche d’uso domestico. Queste ultime mostrano caratteri nuovi tipici, forme diversificate ed un numero crescente d’esemplari per i diversi usi: bicchieri a clessidra, anfore grandi, fruttiere, dipinti con decorazioni geometriche armoniose su fondo rosso a bande brune, o con figure umane schematizzate (vasi di Adrano). Sono state trovate statuette maschili o femminili, dipinte in rosso in nero (Caltanissetta), provenienti da Cipro, da Creta, dall’Anatolia. È importante tra i reperti un particolare tipo d’idolo ricavato da un osso a globuli, finemente lavorato e decorato, diffusamente ritrovato in tutta l’area di Castelluccio, di provenienza, nella forma e nella manifattura, dalla Grecia, da Troia, da Malta. Questi accostamenti culturali confermerebbero che già sin dall’età del bronzo delle correnti commerciali o di popoli s’indirizzano all’Ellade, da Cipro, da Creta, dall’Anatolia verso la Sicilia.
A completamento del quadro complessivo culturale di questa civiltà necessita ricordare l’elevato interesse mostrato dalle popolazioni per i morti, cui riservavano tombe comuni nella roccia, racchiuse da portelli decorati, fornite di spazi precamerali. Come a significare la continuazione della vita nell’aldilà, il defunto veniva seppellito assieme ad oggetti d’uso comune.
Allo scadere della cultura di Castelluccio, si rileva un rifiorire della civiltà delle Lipari, che influenza anche la prospiciente costa sicula (Milazzo). Tale risveglio della civiltà eoliana si deve, secondo Diodoro Siculo (Frag. V, 7), alla nascita della città di Lipara, da cui prendono nome le isole Lipari, ad opera di Liparo, figlio di Ausonio, che alla testa di un’armata proveniente dall’Italia peninsulare, forse dalla Campania, conquistò l’isola. Tale evento troverebbe rispondenza concreta nei storici riferentisi a questo periodo (1250 a. C.). infatti, la facies culturale dell’arcipelago perde i suoi antichi connotati per manifestarne di nuovi, analoghi a quelli di parecchie culture dell’Italia meridionale.
Il risveglio eoliano si può ripartire in due periodi, detti di Ausonio, in cui si nota una distinzione di valori tra il primo momento culturale di esclusiva marca di questo arcipelago, ed un secondo, ove frammenti di questa civiltà s’irradiano anche in Sicilia, lungo il litorale prospiciente le isole (1150 a. C.). Del primo Ausonio sono le ceramiche nere o bruno-scure, i cui caratteri presentano la tipologia delle civiltà appenniniche del centro e del sud Italia: vasi a becco ricurvo o con anse circolari, scodelle carenate. A questo periodo non può ascriversi alcuno dei villaggi ritrovati nelle Eolie, forse perché Liparo provvide con il suo esercito a rendere inabitate tutte le isole, meno Lipari.
Gli insediamenti capannicoli rinvenuti a Castello di Lipari sono del secondo Ausonio e presentano valori innovatori rispetto ai precedenti, soprattutto per la forma rettangolare delle abitazioni, per i solidi muri perimetrali più elevati, per le accresciute dimensioni, per la sistemazione del focolare. Le ceramiche di fabbricazione locale, rinvenute negli scarti di scavo relativi a questi villaggi, sono da tornio ad impasto rosso con pitturazioni bicromatiche: bruno su sfondo chiaro. Per quanto riguarda le forme vengono abbandonate le precedenti per proporre nuovi motivi, quali anse cornute, a testa di animale e a pilastrino scanalato.
Sono stati ritrovati, inoltre, oggetti di bronzo, come fibule ad archetto o ad arco arrotondato, ascrivibili al 1200-1100 a. C., e a piegatura, coltelli con manico, spilloni, stiletti, di più recente fattura, databili tra il X e il IX secolo a. C.
Ampiamente documentata risulta l’archeologia funeraria dell’Ausonio primo e secondo, grazie alla scoperta delle necropoli di Lipari e di Milazzo, dove si notano profonde mutazioni rispetto alle consuetudini del passato, quali incinerazione dei cadaveri, la sistemazione a terra delle tombe, un corredo funebre molto più ricco.
A completamento del panorama siciliano di questo periodo, bisogna ricordare l’importante insediamento di Morgantina a qualche chilometro da Piazza Armerina, avvenuto attorno all’850 a. C. con tipologia culturale della Sicilia orientale; quello di Molino della Badia per la struttura della necropoli rinvenutavi e per il numeroso ed interessante materiale portato alla luce, assimilabile al secondo Ausonio eoliano; e l’altro di Metapiccola di Lentini, il cui materiale archeologico può ascriversi anch’esso complessivamente al secondo Ausonio.
Il quadro etnografico della Sicilia protostorica è molto complesso. Esso risulta composito, come somma di diverse commistioni di popoli, pervenuti in Sicilia a partire dal V millennio a. C., con preponderanza certa di tre elementi: il Sicano, il Siculo, l’Elimo. La cultura che ne deriva, col tempo, acquista caratteri autonomi dalle singole influenze, condizionando in maniera determinante le stesse tre civiltà dei Sicani, dei Siculi, degli Elimi, che a contatto con il mondo siciliano perdono le loro antiche fisionomie fino ad apparire come nuove culture.
Fra tutti e tre furono proprio i Sicani a perdere quasi definitivamente i loro caratteri, forse perché i più remoti abitatori tra i Siculi e gli Elimi, e quindi più soggetti alla penetrazione delle diverse civiltà, che man mano s’affacciavano sull’isola. I Sicani, secondo Tucidide, provenivano dalla città iberica di Sikàne presso il fiume Sikonòs, di stirpe ligure.
Secondo Diodoro Siculo, i Siculi erano popolazioni peninsulari (Ancona è di origine sicula), guerriere affini agli Itali. Sull’arrivo dei Sicani in Sicilia le fonti storiche tacciono. Comunque, questo evento dovette verificarsi attorno al 1300 a. C., mentre l’immigrazione sicula avvenne verso la fine dello stesso millennio. Gli Elimi provennero, a detta di Tucidide, da Troia, subito dopo la sua distruzione.
Secondo Bernabò Brea (La Sicilia Prima dei Greci), le conclusioni conducono a rilevare un periodo pre-ellenico tre culture tra di loro differenziate e dai caratteri ben definiti: quella sicana, sviluppatasi principalmente nella Sicilia centro-meridionale con epicentro S. Angelo Muxaro; quella sicula, interessante la Sicilia orientale con epicentro Pantalica; quella elima o segestana, limitata all’estremo occidente isolano.
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NOTA: I testi sono tratti dal libro di Gaspare Scarcella “La Sicilia dalle origini al processo Andreotti” del 1997.
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24 Novembre 2015

SICILIA. LE ORIGINI: IL PERIODO PALEOLITICO E NEOLITICO (parte prima)

PERIODO PALEOLITICO – La particolare posizione geografica dell’isola di Sicilia, posta al centro del mare Mediterraneo, per millenni ha rappresentato il punto d’incontro e, talora, di scontro delle principali civiltà di questo bacino.
Ogni pietra, ogni anfratto, ogni grotta mostrano i segni definiti della presenza di culture diverse, di cui non tutto, al momento, appare chiaramente decifrabile. Basterebbe, però, che l’interesse verso il passato assumesse i toni e i caratteri della ricerca scientifica oculata e programmata, perché nuove sensazionali scoperte venissero alla luce per confermare che questa incantevole terra, ove le stagioni s’alternano senza i rigorosi loro tipici sussulti, è stata elevata a dimora dell’uomo sin dalla sua iniziale apparizione sul nostro pianeta.
La ricerca archeologica, qui, più che un’opera sistematica di valenti studiosi, è stata spesso frutto d’iniziative individuali, i cui risultati sono serviti raramente a squarciare le ombre che ancora oggi avvolgono il passato remoto di questa splendida terra.
Di certo, dovette trovarsi sito l’Uomo di Neanderthal, la cui presenza, tra il 250.000 a. C. ed il 35.000 a. C., è rilevata in quasi tutti i paesi europei ed in Asia occidentale e centrale.
Il periodo intorno al 35.000 a. C. non va inteso come quello in cui cessa la sua esistenza l’Uomo di Neanderthal per lasciare il posto all’Homo sapiens, ma l’epoca più o meno approssimativa in cui si ha la progressiva e definitiva supremazia dell’uomo moderno su tutte le precedenti specie.
Il materiale archeologico preistorico rinvenuto nelle diverse ricognizioni fatte sul suolo isolano, che hanno avuto inizio nel 1713 ad opera di padre Capuani, non è sufficientemente apprezzabile per il numero di pezzi ritrovati, ma è pur sufficiente a stabilire che la Sicilia fu abitata dai progenitori dell’Homo sapiens, in epoca databile attorno al milione di anni fa.
Conforta questa ipotesi, infatti, il ritrovamento ad una profondità di circa 25 m., presso Termini Imerese, comune della provincia di Palermo, di “strumenti quarzitici a scheggiatura bifacciale”, tipici dell’Homo habilis abbevilliano. Altre presenze dell’uomo o dei suoi lontani ascendenti nell’isola di Sicilia, durante il paleolitico inferiore, sono segnalate dalle scoperte fatte da M. Bianchini nella Valle dei Platani, presso Rocca di Vruaro, di armi in pietra a forma di mandorla (amigdala) e sui terrazzi fluviali del Dittaino e del Simeto.
A questi interessanti ritrovamenti vanno assommati i più recenti, fatti da M. Meli, nel 1961, a Giancaniglia (Termini Imerese) e da E. De Miro, nel 1968, presso Eraclea Minoa (Agrigento), di manufatti rozzamente lavorati, riferibili con certezza al paleolitico inferiore.
Lo sviluppo della civiltà isolana del paleolitico inferiore sembrerebbe procedere di pari passo con quello della prospiciente costa tunisina, per cui potrebbe avanzarsi l’ipotesi di uno scambio, anche lento, date le distanze, delle due civiltà.
Ciò farebbe pensare, almeno durante il paleolitico inferiore, ad un collegamento terrestre tra la Sicilia e la costa africana. Avvalorerebbero questa ipotesi le caratteristiche similari del paesaggio paleolitico della fauna e della flora delle due opposte coste mediterranee. Infatti, mentre nella restante Europa in quest’epoca scompare del tutto l’elephas mnaidriensis, esso continua a vivere indisturbato sia in Sicilia sia nei territori nord-africani, come a significare un eguale comune denominatore ambientale, dovuto ad agevoli o, per lo meno, possibili collegamenti terrestri. Al tempo, ogni altra via di comunicazione era preclusa sia all’uomo sia agli animali.
Le testimonianze archeologiche riferentisi al paleolitico inferiore, anche se di numero limitato, sono più che sufficienti a giustificare l’ipotesi della presenza dell’uomo in Sicilia in questo periodo. Vengono, quindi, superate antiche affermazioni che l’Isola fosse abitata a partire dal paleolitico superiore, del quale, qui, come altrove, più consistenti sono i segni tangibili del passaggio dell’uomo.
Non c’è grotta isolana che sia priva di elementi identificatori della civiltà del tardo paleolitico, la quale assume, soprattutto nelle grotte di Levanzo (isole Egadi - nella foto "la Grotta del Genovese"), i caratteri tipici di quella cultura, definibili in ogni loro fase di sviluppo. In questa fase della Preistoria la maggior parte della fauna è costituita da cavalli, buoi, cervi, stambecchi, pesci, tutte figure scolpite nelle pareti delle grotte delle Egadi.
Le figure talora tozze, tal’altra raffinate, tal’altra ancora stilizzate, incise o dipinte (uomo stilizzato nella Grotta del Pozzo a Favignana, come se l’autore volesse lasciare un segno riconoscibile della sua arte, testimoniano il bisogno figurativo, presente nell’uomo sin dalla fase più antica della sua esistenza.
Tra tutte le grotte risplende per avanzato senso estetico e critico la Grotta del Genovese a Levanzo, ove, tra l’altro, i graffiti di un bos primigenus, incisi con bulini di selce sulla nuda roccia, e la pittura di una cerbiatta mostrano un bisogno di comunicazione e di cultura abbastanza elevato dello sconosciuto artista. Nella stessa grotta, ma di origine sicuramente più recente, neolitico-età del bronzo, sono rappresentati animali domestici, tonni e donne in catene. Anche lungo le numerose grotte del litorale trapanese, un tempo collegato con le prospicienti isole aegusee, è stato rinvenuto interessante materiale attribuibile al paleolitico superiore e databile attorno al 10000 a. C.
I reperti più diffusi di questa zona sono rappresentati da frammenti di ossa, selci, conchiglie (una delle prime monete di scambio), ceneri, carboni, raschiatoi, punte di ossidiana, lame litiche grezze e lavorate, bulini di varia natura, ossi di cervi, asini, bovini, canidi, cinghiali, e una zampa di elefante ritrovata dal marchese Della Rosa nella Grotta Emiliana in località Bonagia (Valderice).
Spesso questi segni tangibili del paleolitico superiore si accompagnano a pitture, incisioni sulla nuda roccia, o lettere, croci, piccoli sacelli, tombe riferibili a civiltà posteriori, come quella punica, greca, romana, primo-cristiana, araba e spagnola.
La presenza di culture diverse stanziate in epoche successive alle stesse grotte affermerebbe l’uso abitativo millenario delle caverne, continuato fino all’evo moderno. A questi importanti e rilevanti ritrovamenti compiuti lungo tutta la costa trapanese vanno aggiunti gli altrettanto numerosi ritrovamenti di materiale similare, portato alla luce su tutto il territorio isolano.
A qualche chilometro dall’aeroporto di Punta Raisi, proprio alle pendici della Montagna Longa, in ricognizioni successive, iniziate sin dal 1869 dal Gemellaro e proseguite , ai giorni nostri, dal Mannino, sono stati ritrovati scheletri di elefanti, di bos primigenus, di bison priscus, di cavalli, di ippopotami, d’uccelli, rappresentazioni sulla nuda roccia di cerbiatti, cavalli, nonché oggetti d’uso comune, tra cui lamelle litiche e conchiglie. Materiale più o meno numeroso è rinvenibile anche in buona parte delle caverne dell’Addaura, attorno a Monte Pellegrino, la montagna sovrastante il capoluogo, e in tutte le restanti grotte del Palermitano, tra cui vanno ricordate, per copiosità del materiale rinvenuto, la Grotta di S. Ciro e la caverna di Monte Gallo. In epoche successive, non di rado, queste grotte litoranee furono utilizzate dai mercanti di Tiro, prima, e dai Cartaginesi, poi, come empori commerciali per i loro fiorenti traffici.
Ma non solo la Sicilia occidentale è ricca di presenze umane del Paleolitico superiore: anche la costa orientale, ove ben presto s’affaccerà la civiltà ellenica, conserva nelle sue cavità e fosse marine i segni dell’uomo paleolitico. Le grotte di questa parte di Sicilia risultano maggiormente interrate di quelle occidentali. Le operazioni di sterramento per strati hanno portato alla luce materiale vario di epoche susseguenti.
Di rilevante importanza è la scoperta di una punta litica, detta “a cran”, unico esemplare siculo, nella Grotta di S. Corrado, assieme a bulini e ad altro materiale litico, e di ceramica dipinta di epoca posteriore al paleolitico, assimilabile alla civiltà di Castelluccio (2100-1500 a. C.).
Proseguendo nello studio del paleolitico isolano, di notevole interesse appaiono i ritrovamenti fatti da P. Graziosi nella grotta messinese di S. Teodoro, ove furono rinvenuti negli strati superiori ossa di animali vari, mentre negli strati inferiori selci e quarziti, frammenti di ossa riferibili all’Homo sapiens, materiale litico vario ed uno scheletro umano in buona conservazione. Altre stazioni abitative di questo periodo, importanti ai fini della conoscenza del Paleolitico, sono quelle di Novara di Sicilia (Messina) e di Corruggi (Pachino).
Sebbene sia numerosa la presenza di manufatti dell’uomo del paleolitico in tutta l’Isola, mancano, eccezion fatta per lo scheletro della Grotta di S. Teodoro, rinvenimenti di altri resti umani. Questo è l’unico vero mistero che avvolge il Paleolitico siciliano in tutte le sue fasi di sviluppo.
NOTA: I testi sono tratti dal libro di Gaspare Scarcella “La Sicilia dalle origini al processo Andreotti” del 1997.
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24 Novembre 2015

domenica 22 novembre 2015

COME SI MANGIAVA UNA VOLTA. UNA CUCINA SANA E GENUINA



La cucina della cultura contadina di un tempo era molto semplice e genuina, ma gli antichi ci raccontano anche, che spesso era poco abbondante, viste le condizioni economiche delle famiglie che lavoravano la terra nei campi. La frutta era a portata di mano: ficalinni, (fichi d’India), pùma, (mele), pira, (pere), fica, (fichi), pira spineddhi, prùna, (prugne), nespuli, (nespole), girasi, (ciliegie), e poi gli ortaggi, broccoli, lattughe, asparagi da fare con le uova, cavolfiori, minestra ì campagna, ecc. A pranzo bastava un primo che eri sazio: pasta e faciòla, (pasta e fagioli), pasta e linticchia, pasta chi favi, ù maccu, (si tratta di una crema di fave realizzata con una cottura prolungata di fave secche alle quali veniva aggiunta una verdura, solitamente delle bietole, e servita con il solo condimento di olio d’oliva. Veniva consumata come minestra o piatto unico. È un piatto povero della cultura contadina e nello stesso tempo molto nutriente. Risale all'antichità in quanto sembra fosse conosciuto al tempo degli antichi romani), pasta ch’ì patati e lardu, pasta c’ù ‘zzugu e lardu ì maiali. Come detto, ci si riempiva la pancia con tutte pietanze di prodotti sani e genuini, e c’è chi afferma che si viveva maggiormente in salute nonostante il duro lavoro.
Quando si faceva il pane, prima di infornarlo, una pagnotta già lievitata veniva fatta friggere (cuzzòla fritta) o arrostita sulla brace (cuzzòla ‘rrustuta). Tutte le famiglie tenevano nel cortile dietro casa le galline e qualcuno anche il maiale (nutrito con ghiande, ficodindia, crusca ed erba), che veniva, o venduto à fèra (mercato del bestiame) di Santa Teresa per ricavarne un bel gruzzolo di soldi o se le condizioni economiche della famiglia lo permettevano, veniva ucciso per Natale “per uso famiglia” per farne salame, pancetta, sasizza, (salsiccia), saìmi, (sugna), suppissata, (particolare tipo di salame più simile alla salsiccia), sangunazzu, (insaccato contenente prevalentemente interiora e sangue di maiale), frittuli o ziringuli, (la materia prima della frittola è il risultato di una particolare lavorazione degli scarti della macellazione del vitello), lardo e così era assicurata una buona scorta alimentare per tutto l’inverno. Alcuni, allevavano anche un vitello in casa, (al piano terra c’era generalmente la stanza adibita a stalla, e salendo per una scala di legno si giungeva all’abitazione), che ingrassavano nell’arco di un anno per poi venderlo poi ai macellai della zona.
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Da qui il modo di dire: Cu si marita sta cuntentu un ghiornu / Cu ‘mmazza ù porcu sta cuntentu n’annu. Nei giorni di festa e nei matrimoni, si facevano delle schiticchiate; allora sì che si poteva strafare: maccarruni ‘ntò zùgu d’ù maiali, sasizza, cost’ì maiali supra a bracia, e poi, castratu ò furnu, capretto ‘nfurnatu, il tutto era sempre accompagnato d’u pan’i casa e d’u vinu d’à nostra vigna. E poi c’erano i liquori fatti in casa: rosolio e nocino, come dolci: noci, fichi secchi, mostarda secca (con aggiunta di cannedda, cammommu, garofulu e mennuli ‘ntustati ), castagne, mandorle, insomma tutta roba di altri tempi il cui sapore si è già ormai perduto nella memoria dei nostri padri.
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Domenica 22 Novembre 2015

venerdì 20 novembre 2015

Caffè D'Arte, 4a giornata. UNA SERATA CHE NON VI SAPREI RACCONTARE



Santa Teresa di Riva (Messina). La quarta serata del Caffè d’arte si è aperta con la presentazione di una famosa scrittrice siciliana Marinella Fiume, la quale ha raccontato le opere di Mariannina Coffa.
Melina Patanè è come se volesse liberare la mente sua e degli intervenuti, dal tanto strazio raccontarci in questi giorni dai media. La bellezza dell’arte per cancellare la cattiveri e l’efferatezza dell’uomo, stiamo ovviamente riferendoci alla strage di Parigi, ma, senza ricercare colpevoli, l’occasione è di dare respiro all’animo umano con un paio d’ore di serenità e talento allo stesso tempo.
“La capacità curatrice delle donne” è uno del libri raccontati questa sera, libro al quale si aggiunge: “Sicilia esoterica”, che racconta degli effetti mistici e magici nella Sicilia dell’epoca, (l’ottocento), ma anche di antiche religioni professate nei luoghi più antichi della Sicilia. E fra gli altri, “La bambina sepolta viva”, (storia vera, raccontata attraverso la lettura degli atti processuali, avvenuta durante il fascismo. Per il reato di adulterio, la madre e il padre seppellivano viva la figlia.
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Mariannina Coffa, sposata contro la sua volontà all’età di diciotto anni, avrebbe detto di se: “la vita è stata per me un’aspra guerra”. Scriveva le poesie di nascosto, di notte, a lume di candela, nella camera da letto. Sebbene fosse relegata in casa, era socia di numerose associazioni culturali in Sicilia e nel mondo. In una famiglia di analfabeti, leggeva in segreto le riviste che il parroco di nascosto le faceva avere. La donna si ammalerà, ma grazie all’amicizia di un medico, si curerà tramite l’omeopatia, e ciò le causerà forti conflittualità con il suocero che le renderà la vita ancora più difficile di quanto già non fosse, definendola strega. Mariannina infine morirà perché i suoi si rifiuteranno di sostenere la spesa per l’operazione chirurgica che le avrebbe salvato la vita.
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UN CONCERTO JAZZ, DUE TALENTI AFFERMATI
Un duo di giovani, quello composto da Carlo Nicita  e Tito Mangialajo Rantzer in "Around Sonny", (un concerto jazz in omaggio al sassofonista Sonny Rollins), ha offerto agli astanti, nei suoi brani, quella serenità e dello spirito di cui lo scrivente non saprebbe  raccontarvi gli aspetti non essendo approfondito in materia. Certo è che, i due giovani, Carlo, figlio di Santa Teresa di Riva e Tito di origine ebrea, già conosciuti nel mondo per aver calcato i più disparati palcoscenici, hanno mostrato, oltre che maestria nel suonare i rispettivi strumenti, (il flauto, Carlo ed il contrabbasso, Tito), ottima conoscenza storica della materia del jazz e dei suoi autori.  
Come sempre, una bella serata!

20 novembre 2015
Giovanni BonarRIGO

sabato 7 novembre 2015

FURCI SICULO ACCOGLIE IL NUOVO PARROCO DON MASSIMO BRIGUGLIO



FURCI SICULO (Messina). Mentre la giornata volge alla sera, nella piazza Sacro Cuore una folla festante di fedeli. E’ l’intero paese che accoglie il proprio fratello Massimo. Sulla scalinata della chiesa, tanti ragazzini attorniano il primo cittadino, le insegnanti, le forze dell’ordine, e tengono in mano una lunghissima striscia recante la scritta azzurra di benvenuto: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”.
Quasi commosso il Sindaco, recita il suo abbraccio ad un cittadino nato a Furci nel 1962 e che lo stesso paese accoglie quale guida spirituale per gli anni a venire, ricordando il più illustre dei predecessori padre Francesco Donsì. In piazza c’è anche mons. Gaetano Tripodo, delegato ad omnia per la diocesi di Messina, il quale, assieme a padre Gerry Currò, ai diaconi, ai chierichetti ed a molti altri, celebrerà di lì a poco la Santa Messa di insediamento.
La chiesa, talmente fitta di fedeli, lascia in piedi tanti di loro. Ma la gioia cancella ogni stanchezza. Ecco scendere dall’altare il neo parroco di Furci a benedire i suoi confratelli con aspersorio. La predica di mons. Tripodo, le preghiere dei ragazzi, i quali si dispongono garbatamente in fila dietro al leggio dell’altare. Il simulacro della Madonna del Santo Rosario sembra vegliare su tutti i presenti. Là, oltre la porta della chiesa, altra gente è rimasta fuori, ma anch’essa segue la messa in silenzio. Mons. Tripodo alza l’ostia al cielo, lo sguardo attento di padre Massimo, di padre Currò, di Giovanni Sturiale, prossimo parroco è come in estasi. Poi, padre Massimo, porge l’ostia consacrata ai fedeli. E’ stata una lunga funzione religiosa che ha suggellato un nuovo corso di fede, un nuovo cammino sulla via di Cristo, dove ognuno è chiamato a svolgere il proprio compito. Benvenuto fra noi, caro Massimo!  
Giovanni Bonarrigo
07 Ottobre 2015