Il quarto di secolo intercorso fra il Nobel per la
letteratura assegnato a Luigi Pirandello nel 1934 e quello conferito
dall’Accademia di Svezia a Salvatore Quasimodo nel 1959 rimane, fino ad oggi, (all’epoca
in cui scrive Tiozzo, ndr), lo spazio di tempo più lungo durante il quale
il nostro Paese è rimasto escluso dal riconoscimento letterario più prestigioso
e più ambito del mondo. I motivi di un così lungo ostracismo nei confronti di
una nazione che nei primi 34 anni del premio aveva visto insigniti ben tre suoi
scrittori (superata nel contesto internazionale solo dalla Francia e dalla
Germania e alla pari con Gran Bretagna) sono molteplici ma più forte va
individuato senza dubbio nella dura squalifica politica e morale
significativamente inflitta dagli svedesi a un Paese ritenuto responsabile, al
pari della Germania, degli orrori della seconda guerra mondiale e punito
inoltre da una cocente sconfitta. La controprova è fornita proprio dalle sorti
della Germania, premiata quattro volte in dodici anni prima della Grande guerra
(Mommsen nel 1902, Eucken nel 1908, Heyse nel 1910, Hauptmann nel 1902) e solo
due volte (Mann e Boll) nei sessanta anni successivi.
I verbali delle riunioni della commissione Nobel,
protetti per cinquant’anni dal vincolo della segretezza ed accessibili, dopo
tale scadenza, solo con
speciale permesso accordato di volta in volta a discrezione del Segretario
Permanente dell’Accademia di Svezia, rivelano in modo inequivocabile come le
vicende politico-militari europee siano sempre state al centro delle
discussioni e delle valutazioni dei soci dell’Accademia e dei componenti della
commissione Nobel, al pari e qualche volta più dei meriti letterari degli
autori presi in considerazione. Al giudizio politico-morale (non sempre univoco
dell’Accademia assai conservatrice e quasi reazionaria del primo Novecento che
pure rappresentava una piccola nazione neutrale) si univa quello apertamente utilitaristico
che calcolava opportunità e rischi legati al conferimento di un premio
prestigioso come il Nobel a scrittori di potenze di cui si ignorava se
sarebbero uscite vincenti o sconfitte dalle ricorrenti crisi europee, dal gioco
delle alleanze militari e dallo scatenamento di possibili conflitti.
Nel caso dell’Italia, in particolare, pensavo il fatto
che il conferimento del Nobel a Pirandello nel 1934 fosse stato chiaramente
influenzato dalla posizione di assoluto prestigio di cui lo scrittore godeva
nell’Italia fascista in anni in
cui l’Accademia di Svezia aveva ancora ogni interesse a mantenere buoni
rapporti con l’Italia di Mussolini. I documenti della commissione Nobel
relativi al premio assegnato al drammaturgo italiano mettono in evidenza come la
sua candidatura fosse stata fortemente appoggiata dall’establishment culturale
italiano, come del resto appariva palesemente sia dalla proposta avanzata a
favore di Pirandello da Guglielmo Marconi in qualità di presidente
dell’Accademia d’Italia, sia dal giudizio positivo a favore dello scrittore
italiano (peraltro senza alcun dubbio meritevole del premio) stilato dal
presidente della commissione Nobel, Per Hallstrom, filonazista e grande
ammiratore di Hitler come ha documentato il suo collega in Accademia Anders
Ȫsterling nel suo libro di memorie del 1967 Minnets vagar (Le vie del ricordo).
L’Accademia di Svezia e la commissione Nobel del
secondo dopoguerra erano però molto diverse sia per i loro comportamenti che
per la loro impostazione politica rispetto al quadro degli anni Trenta che
aveva favorito la candidatura di Pirandello. I premi adesso conferiti esclusivamente a scrittori
di Paesi neutrali (Hesse, Lagerkvist, Jimènez) o di nazioni vincitrici nel
conflitto (Gide, T.S. Eliot, Faulkner, Russell, Mauriac, Churchill, Heminguway,
Camus) dimostrano chiaramente quale fosse il peso del giudizio storico-morale
legato al premio, mentre – per quanto riguarda segnatamente l’Italia – alcune
significative candidature (come quella di Ignazio Silone) avanzate insistentemente
dall’interno della stessa commissione Nobel (Hjalmar Gullberg, Fredrik Book)
rivelavano come un eventuale nuovo Nobel all’Italia dovesse andare ad uno
scrittore con tutte le carte in regola non solo dal punto di vista di
un’indiscutibile eccellenza letteraria ma anche da quello di una posizione
morale e politica decisamente antifascista, consapevole del dramma vissuto dal
suo Paese e capace di conferirgli un’incontrovertibile dimensione universale
sul piano della letteratura. Per questi motivi non apparivano particolarmente
forti candidature come quelle di Baccelli e di Papini, pure avanzate in quegli
anni, mentre più favorevole appariva la posizione, pur non indiscussa, di
Moravia proposto la prima volta al Nobel nel 1949.
Il non nascosto desiderio dell’Accademia
dell’Accademia di Svezia di premiare nuovamente l’Italia dopo un quarto di
secolo di purgatorio e
d’insignire contemporaneamente del premio uno scrittore dall’indiscussa
posizione politica e morale, capace di comunicare, con l’immediatezza del
verso, a vari livelli questi valori, orientò alla fine i componenti della
commissione Nobel verso la scelta di un poeta anziché di un romanziere
spingendola, nello stesso tempo, a non fidarsi troppo delle proposte non
supportate da un gradimento interno svedese che vedevano in prima linea, per la
poesia, i nomi di Montale e di Ungaretti candidati fin dal 1955. Salvatore
Quasimodo (pur senza essere stato candidato al Nobel prima del 1958) era invece
accessibile in traduzione svedese fin dal 1948, era molto apprezzato in Svezia
e, nel 1957 era stato oggetto di un’analisi ampia e accurata da parte dello
specialista di lingue romanze, Arne Lundgren, nell’introduzione ad una nuova
antologia della sua produzione lirica. Nel suo testo Lundgren aveva messo in
luce, fra le altre cose, i punti di contatto tra l’opera di Quasimodo e quella
di Garcìa Lorca (l’uso insistente di certe parole chiave, la provenienza dal
meridione povero e sofferente dei rispettivi Paesi, l’influenza della cultura
araba, l’interesse per il teatro, l’attrazione per certe figure simboliche come
quella del cavallo, l’aggettivazione, ecc.) ma soprattutto aveva insistito su
una caratterizzazione del poeta italiano come l’alfiere di una letteratura
desiderosa non tanto di descrivere la realtà quanto invece di trasformarla in
direzione morale.
Era quest’ultimo il punto di cui avevano
particolarmente bisogno la commissione Nobel ed il suo presidente, Anders
Osterling, per portare fino in fondo la candidatura al Nobel del poeta
italiano, avanzata
ufficialmente, a partire dal 1958, da Maurice Bowra dell’Università di Oxford e
degli italiani Carlo Bo e Francesco Flora. Osterling, cui pure non dispiaceva
in quegli anni la candidatura di Moravia e che aveva giudicato La ciociara “un
capolavoro degno del Nobel”, era inoltre certamente molto sensibile all’azione
che in quegli anni stava svolgendo a Stoccolma, a favore di Quasimodo, il
giovane Giacomo Oreglia già impegnato – con la casa editrice “Italica” da lui
fondata – a far conoscere efficacemente in Svezia la produzione lirica
italiana. Il fatto che Origlia avesse pubblicato a Stoccolma una scelta delle
poesie di Quasimodo nella traduzione dello stesso Osterling pochi mesi prima
che il nostro poeta ricevesse il Nobel è un fatto di cui non si potrà mai
sottolineare abbastanza il valore. Quali siano stati l’impegno e il ruolo di
Oreglia nell’assegnazione del premio al poeta italiano appare in modo evidente
anche nel recente ed informatissimo saggio di Curzia Ferrari, Dio del silenzio,
apri la solitudine. La fede tormentata di Salvatore Quasimodo.
L’approccio più problematico per l’attribuzione del
Nobel a Quasimodo appariva però la candidatura (precedente a quella del poeta
siciliano e riconfermata ogni anno) di Ungaretti, destinato quasi certamente, per
motivi anagrafici, ad uscire per sempre dalla scena del Nobel nel caso di un
premio al più giovane concorrente italiano.
Per dirimere la questione in modo ufficiale e
definitivo Osterling, a nome della commissione Nobel, affidò una perizia sui
due poeti all’esperto di fiducia dell’Accademia per la letteratura italiana, il
giornalista Ingermar Wizelius, corrispondente della Svizzera del quotidiano “Dagens
Nyheter” e buon conoscitore della nostra lingua. Sembra credibile che il
giudizio di Wizelius fosse in qualche modo “pilotato” dalle indicazioni
ricevute da Osterling, almeno per quanto riguarda il taglio molto politico che
il critico volle dare alle due perizie dattiloscritte (ciascuna di dieci
pagine) che consegnò alla commissione Nobel come viatico per la sua decisione a
favore di uno solo tra i due italiani, dal momento che Osterling aveva
esplicitamente escluso la possibilità, che pure si presentava come ultimo
escamotage, di un ex aequo tra Quasimodo e Ungaretti. La contrapposizione
politica fra Quasimodo, di cui Wizelius mette subito in luce l’appartenenza
“alla rimarchevole generazione di scrittori italiani apparsa intorno al 1930
[…] che dopo la caduta del fascismo hanno ottenuto grandi successi
internazionali”e Ungaretti di cui lo stesso critico evidenzia, già nelle prime
righe della sua analisi, che “durante il fascismo dominò la scena poetica” e
che fu definito “il poeta più rappresentativo del periodo fascista”, è
estremamente evidente e mette immediatamente fuori gioco il concorrente di
Quasimodo, al quale la commissione Nobel sulla base di queste informazioni
(rilasciate dal suo esperto di fiducia) si sarebbe guardata bene dal conferire
il premio Nobel.
Sarebbe tuttavia certamente limitativo ridurre le
perizie di Wizelius ad un puro controllo sulle credenziali politiche dei due
concorrenti italiani, anche se lo spazio dedicato dal critico svedese alla
posizione di condanna morale di Quasimodo nei confronti del fascismo occupa una parte molto ampia nelle
dieci pagine della sua analisi. Al di là di queste osservazioni infatti
Wizelius, raccogliendo anche le interpretazioni di Arne Landgern, svolge
un’attenta perlustrazione critica della produzione di Quasimodo (da Acque
e terre a Il falso e vero verde) che riflette fedelmente
la posizione di assoluto prestigio di cui il poeta italiano godeva in Svezia e
agli occhi della commissione Nobel. Dopo aver messo in luce il saldo ancoraggio
della lirica di Quasimodo nella drammatica realtà del suo tempo ed il suo
rapporto iniziale con la poesia ermetica, Wizelius passa a sottolineare “lo
stile spontaneamente monumentale che caratterizza il ‘secondo’ e grande periodo
della lirica di Quasimodo: quello che comincia con le sue esperienze di
guerra”. L’uso del termine “monumentale” (“monumental” in svedese), che torna
altre due volte nel testo di Wizelius, è particolarmente significativo e si
riferisce alla grandiosità letteraria dei classici come Goethe, che l’Accademia
di Svezia – come ha precisato nei suoi saggi Kjell Espmark, presidente di lungo
corso della commissione Nobel – considerava come inalienabili punti di
riferimento per il conferimento del premio.
La perizia di Wizelius si sofferma in particolare (con ampie citazioni in italiano e
in svedese tratte dalle liriche) sui versi di Giorno dopo giorno,
dei quali egli scrive che “qui Quasimodo ha annotato contemporaneamente le cose
quotidiane, l’angoscia in ‘questo silenzio fermo nelle strade’, lo snervante in
‘questo vento indolente che ora scivola basso tra le foglie morte o risale ai
colori delle insegne straniere’, dettagli che nel loro complesso evocano
l’atmosfera di congiura e di pressione nella Milano flagellata dalle bombe e
dal fuoco, dove nemici di altro genere stanno continuamente in guardia e nello
stesso tempo sono a caccia”. Uno spazio notevole viene dedicato anche
all’analisi di “Laude 29 aprile 1945”, definita dallo svedese
“una delle più alte poesie di Quasimodo” e di cui Wizelius scrive che “è
difficile credere che questo riassunto umano non venga citato per secoli”.
Altrettanto entusiasta è il giudizio su “Il mio paese è l’Italia”,
citato da Wizelius nella traduzione svedese dello stesso Osterling, di cui
viene detto che, in quei versi, “Quasimodo ha trovato parole e toni definitivi,
espressioni che nella loro combinazione di istantaneità e di ardente impegno
appartengono alla letteratura mondiale”.
Si trattava dunque di una serie di giudizi mirati a
porre in piena luce la posizione di assoluto rilievo rivestita da Quasimodo non
solo nella letteratura italiana ma in quella mondiale del Novecento e nello stesso tempo a mettere la
commissione Nobel nelle condizioni ideali per assegnare il premio al poeta
siciliano senza la minima possibilità, da parte di Ungaretti o di altri
concorrenti italiani, di insidiarne quello che per l’Accademia di Svezia, dopo
l’analisi di Wizelius, appariva sempre più come un indiscutibile primato.
Osterling poteva così mettere ufficialmente a verbale nella seduta della
commissione Nobel che “della forza creativa di Quasimodo” era “felice
testimonianza la nuova silloge La terra impareggiabile, da poco
apparsa” mentre Ungaretti al contrario “aveva esaurito il suo ruolo come
comunicatore di impulsi” e che Quasimodo perciò, senza ombra di concorrenza,
doveva essere considerato “qualificato per il premio”.
Questo articolo, fu pubblicato sul sito Fogliodisicilia.it (nella sezione STORIE DI SICILIA), il 2 Giugno 2013.
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