martedì 11 ottobre 2016

IL NOBEL A QUASIMODO. STORIA DI UN PREMIO (di Enrico Tiozzo)



Il quarto di secolo intercorso fra il Nobel per la letteratura assegnato a Luigi Pirandello nel 1934 e quello conferito dall’Accademia di Svezia a Salvatore Quasimodo nel 1959 rimane, fino ad oggi, (all’epoca in cui scrive Tiozzo, ndr), lo spazio di tempo più lungo durante il quale il nostro Paese è rimasto escluso dal riconoscimento letterario più prestigioso e più ambito del mondo. I motivi di un così lungo ostracismo nei confronti di una nazione che nei primi 34 anni del premio aveva visto insigniti ben tre suoi scrittori (superata nel contesto internazionale solo dalla Francia e dalla Germania e alla pari con Gran Bretagna) sono molteplici ma più forte va individuato senza dubbio nella dura squalifica politica e morale significativamente inflitta dagli svedesi a un Paese ritenuto responsabile, al pari della Germania, degli orrori della seconda guerra mondiale e punito inoltre da una cocente sconfitta. La controprova è fornita proprio dalle sorti della Germania, premiata quattro volte in dodici anni prima della Grande guerra (Mommsen nel 1902, Eucken nel 1908, Heyse nel 1910, Hauptmann nel 1902) e solo due volte (Mann e Boll) nei sessanta anni successivi.

I verbali delle riunioni della commissione Nobel, protetti per cinquant’anni dal vincolo della segretezza ed accessibili, dopo tale scadenza, solo con speciale permesso accordato di volta in volta a discrezione del Segretario Permanente dell’Accademia di Svezia, rivelano in modo inequivocabile come le vicende politico-militari europee siano sempre state al centro delle discussioni e delle valutazioni dei soci dell’Accademia e dei componenti della commissione Nobel, al pari e qualche volta più dei meriti letterari degli autori presi in considerazione. Al giudizio politico-morale (non sempre univoco dell’Accademia assai conservatrice e quasi reazionaria del primo Novecento che pure rappresentava una piccola nazione neutrale) si univa quello apertamente utilitaristico che calcolava opportunità e rischi legati al conferimento di un premio prestigioso come il Nobel a scrittori di potenze di cui si ignorava se sarebbero uscite vincenti o sconfitte dalle ricorrenti crisi europee, dal gioco delle alleanze militari e dallo scatenamento di possibili conflitti.

Nel caso dell’Italia, in particolare, pensavo il fatto che il conferimento del Nobel a Pirandello nel 1934 fosse stato chiaramente influenzato dalla posizione di assoluto prestigio di cui lo scrittore godeva nell’Italia fascista in anni in cui l’Accademia di Svezia aveva ancora ogni interesse a mantenere buoni rapporti con l’Italia di Mussolini. I documenti della commissione Nobel relativi al premio assegnato al drammaturgo italiano mettono in evidenza come la sua candidatura fosse stata fortemente appoggiata dall’establishment culturale italiano, come del resto appariva palesemente sia dalla proposta avanzata a favore di Pirandello da Guglielmo Marconi in qualità di presidente dell’Accademia d’Italia, sia dal giudizio positivo a favore dello scrittore italiano (peraltro  senza alcun dubbio meritevole del premio) stilato dal presidente della commissione Nobel, Per Hallstrom, filonazista e grande ammiratore di Hitler come ha documentato il suo collega in Accademia Anders Ȫsterling nel suo libro di memorie del 1967 Minnets vagar (Le vie del ricordo).

L’Accademia di Svezia e la commissione Nobel del secondo dopoguerra erano però molto diverse sia per i loro comportamenti che per la loro impostazione politica rispetto al quadro degli anni Trenta che aveva favorito la candidatura di Pirandello. I premi adesso conferiti esclusivamente a scrittori di Paesi neutrali (Hesse, Lagerkvist, Jimènez) o di nazioni vincitrici nel conflitto (Gide, T.S. Eliot, Faulkner, Russell, Mauriac, Churchill, Heminguway, Camus) dimostrano chiaramente quale fosse il peso del giudizio storico-morale legato al premio, mentre – per quanto riguarda segnatamente l’Italia – alcune significative candidature (come quella di Ignazio Silone) avanzate insistentemente dall’interno della stessa commissione Nobel (Hjalmar Gullberg, Fredrik Book) rivelavano come un eventuale nuovo Nobel all’Italia dovesse andare ad uno scrittore con tutte le carte in regola non solo dal punto di vista di un’indiscutibile eccellenza letteraria ma anche da quello di una posizione morale e politica decisamente antifascista, consapevole del dramma vissuto dal suo Paese e capace di conferirgli un’incontrovertibile dimensione universale sul piano della letteratura. Per questi motivi non apparivano particolarmente forti candidature come quelle di Baccelli e di Papini, pure avanzate in quegli anni, mentre più favorevole appariva la posizione, pur non indiscussa, di Moravia proposto la prima volta al Nobel nel 1949.

Il non nascosto desiderio dell’Accademia dell’Accademia di Svezia di premiare nuovamente l’Italia dopo un quarto di secolo di purgatorio e d’insignire contemporaneamente del premio uno scrittore dall’indiscussa posizione politica e morale, capace di comunicare, con l’immediatezza del verso, a vari livelli questi valori, orientò alla fine i componenti della commissione Nobel verso la scelta di un poeta anziché di un romanziere spingendola, nello stesso tempo, a non fidarsi troppo delle proposte non supportate da un gradimento interno svedese che vedevano in prima linea, per la poesia, i nomi di Montale e di Ungaretti candidati fin dal 1955. Salvatore Quasimodo (pur senza essere stato candidato al Nobel prima del 1958) era invece accessibile in traduzione svedese fin dal 1948, era molto apprezzato in Svezia e, nel 1957 era stato oggetto di un’analisi ampia e accurata da parte dello specialista di lingue romanze, Arne Lundgren, nell’introduzione ad una nuova antologia della sua produzione lirica. Nel suo testo Lundgren aveva messo in luce, fra le altre cose, i punti di contatto tra l’opera di Quasimodo e quella di Garcìa Lorca (l’uso insistente di certe parole chiave, la provenienza dal meridione povero e sofferente dei rispettivi Paesi, l’influenza della cultura araba, l’interesse per il teatro, l’attrazione per certe figure simboliche come quella del cavallo, l’aggettivazione, ecc.) ma soprattutto aveva insistito su una caratterizzazione del poeta italiano come l’alfiere di una letteratura desiderosa non tanto di descrivere la realtà quanto invece di trasformarla in direzione morale.
Era quest’ultimo il punto di cui avevano particolarmente bisogno la commissione Nobel ed il suo presidente, Anders Osterling, per portare fino in fondo la candidatura al Nobel del poeta italiano, avanzata ufficialmente, a partire dal 1958, da Maurice Bowra dell’Università di Oxford e degli italiani Carlo Bo e Francesco Flora. Osterling, cui pure non dispiaceva in quegli anni la candidatura di Moravia e che aveva giudicato La ciociara “un capolavoro degno del Nobel”, era inoltre certamente molto sensibile all’azione che in quegli anni stava svolgendo a Stoccolma, a favore di Quasimodo, il giovane Giacomo Oreglia già impegnato – con la casa editrice “Italica” da lui fondata – a far conoscere efficacemente in Svezia la produzione lirica italiana. Il fatto che Origlia avesse pubblicato a Stoccolma una scelta delle poesie di Quasimodo nella traduzione dello stesso Osterling pochi mesi prima che il nostro poeta ricevesse il Nobel è un fatto di cui non si potrà mai sottolineare abbastanza il valore. Quali siano stati l’impegno e il ruolo di Oreglia nell’assegnazione del premio al poeta italiano appare in modo evidente anche nel recente ed informatissimo saggio di Curzia Ferrari, Dio del silenzio, apri la solitudine. La fede tormentata di Salvatore Quasimodo.

L’approccio più problematico per l’attribuzione del Nobel a Quasimodo appariva però la candidatura (precedente a quella del poeta siciliano e riconfermata ogni anno) di Ungaretti, destinato quasi certamente, per motivi anagrafici, ad uscire per sempre dalla scena del Nobel nel caso di un premio al più giovane concorrente italiano.
Per dirimere la questione in modo ufficiale e definitivo Osterling, a nome della commissione Nobel, affidò una perizia sui due poeti all’esperto di fiducia dell’Accademia per la letteratura italiana, il giornalista Ingermar Wizelius, corrispondente della Svizzera del quotidiano “Dagens Nyheter” e buon conoscitore della nostra lingua. Sembra credibile che il giudizio di Wizelius fosse in qualche modo “pilotato” dalle indicazioni ricevute da Osterling, almeno per quanto riguarda il taglio molto politico che il critico volle dare alle due perizie dattiloscritte (ciascuna di dieci pagine) che consegnò alla commissione Nobel come viatico per la sua decisione a favore di uno solo tra i due italiani, dal momento che Osterling aveva esplicitamente escluso la possibilità, che pure si presentava come ultimo escamotage, di un ex aequo tra Quasimodo e Ungaretti. La contrapposizione politica fra Quasimodo, di cui Wizelius mette subito in luce l’appartenenza “alla rimarchevole generazione di scrittori italiani apparsa intorno al 1930 […] che dopo la caduta del fascismo hanno ottenuto grandi successi internazionali”e Ungaretti di cui lo stesso critico evidenzia, già nelle prime righe della sua analisi, che “durante il fascismo dominò la scena poetica” e che fu definito “il poeta più rappresentativo del periodo fascista”, è estremamente evidente e mette immediatamente fuori gioco il concorrente di Quasimodo, al quale la commissione Nobel sulla base di queste informazioni (rilasciate dal suo esperto di fiducia) si sarebbe guardata bene dal conferire il premio Nobel.

Sarebbe tuttavia certamente limitativo ridurre le perizie di Wizelius ad un puro controllo sulle credenziali politiche dei due concorrenti italiani, anche se lo spazio dedicato dal critico svedese alla posizione di condanna morale di Quasimodo nei confronti del fascismo occupa una parte molto ampia nelle dieci pagine della sua analisi. Al di là di queste osservazioni infatti Wizelius, raccogliendo anche le interpretazioni di Arne Landgern, svolge un’attenta perlustrazione critica della produzione di Quasimodo (da Acque e terre a Il falso e vero verde) che riflette fedelmente la posizione di assoluto prestigio di cui il poeta italiano godeva in Svezia e agli occhi della commissione Nobel. Dopo aver messo in luce il saldo ancoraggio della lirica di Quasimodo nella drammatica realtà del suo tempo ed il suo rapporto iniziale con la poesia ermetica, Wizelius passa a sottolineare “lo stile spontaneamente monumentale che caratterizza il ‘secondo’ e grande periodo della lirica di Quasimodo: quello che comincia con le sue esperienze di guerra”. L’uso del termine “monumentale” (“monumental” in svedese), che torna altre due volte nel testo di Wizelius, è particolarmente significativo e si riferisce alla grandiosità letteraria dei classici come Goethe, che l’Accademia di Svezia – come ha precisato nei suoi saggi Kjell Espmark, presidente di lungo corso della commissione Nobel – considerava come inalienabili punti di riferimento per il conferimento del premio.

La perizia di Wizelius si sofferma in particolare (con ampie citazioni in italiano e in svedese tratte dalle liriche) sui versi di Giorno dopo giorno, dei quali egli scrive che “qui Quasimodo ha annotato contemporaneamente le cose quotidiane, l’angoscia in ‘questo silenzio fermo nelle strade’, lo snervante in ‘questo vento indolente che ora scivola basso tra le foglie morte o risale ai colori delle insegne straniere’, dettagli che nel loro complesso evocano l’atmosfera di congiura e di pressione nella Milano flagellata dalle bombe e dal fuoco, dove nemici di altro genere stanno continuamente in guardia e nello stesso tempo sono a caccia”. Uno spazio notevole viene dedicato anche all’analisi di “Laude 29 aprile 1945”, definita dallo svedese “una delle più alte poesie di Quasimodo” e di cui Wizelius scrive che “è difficile credere che questo riassunto umano non venga citato per secoli”. Altrettanto entusiasta è il giudizio su “Il mio paese è l’Italia”, citato da Wizelius nella traduzione svedese dello stesso Osterling, di cui viene detto che, in quei versi, “Quasimodo ha trovato parole e toni definitivi, espressioni che nella loro combinazione di istantaneità e di ardente impegno appartengono alla letteratura mondiale”.

Si trattava dunque di una serie di giudizi mirati a porre in piena luce la posizione di assoluto rilievo rivestita da Quasimodo non solo nella letteratura italiana ma in quella mondiale del Novecento e nello stesso tempo a mettere la commissione Nobel nelle condizioni ideali per assegnare il premio al poeta siciliano senza la minima possibilità, da parte di Ungaretti o di altri concorrenti italiani, di insidiarne quello che per l’Accademia di Svezia, dopo l’analisi di Wizelius, appariva sempre più come un indiscutibile primato. Osterling poteva così mettere ufficialmente a verbale nella seduta della commissione Nobel che “della forza creativa di Quasimodo” era “felice testimonianza la nuova silloge La terra impareggiabile, da poco apparsa” mentre Ungaretti al contrario “aveva esaurito il suo ruolo come comunicatore di impulsi” e che Quasimodo perciò, senza ombra di concorrenza, doveva essere considerato “qualificato per il premio”.

Questo articolo, fu pubblicato sul sito Fogliodisicilia.it (nella sezione STORIE DI SICILIA), il 2 Giugno 2013.

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